Goa 28

Goa 28
Un venticello quasi sempre non irruente il Meltemi, che caratterizzava quel clima altrimenti caldo e della cui utilità ti rendevi conto nei rari giorni estivi in cui mancava. Se ne accorgevano anche gli scarafaggi che uscivano a miriadi da pertugi e fogne.
Ero alla primissima confidenza con quell’isola ospitale e solare e sistemato il rimborso del biglietto aereo con Marios mi dedicai ad approntare il mio studio di tatuaggi. I mobili essenziali, un’insegna dipinta sul muro esterno, un letto nuovo al piano di sopra e cominciai a lavorare praticamente dal primo giorno.
Da Roma mi ero portato macchinette e inchiostri come sempre quando mi spostavo e quello che dovevo fare a quel punto era sistemare la questione licenza.
A un passo da dove mi ero piazzato c’era la centrale di polizia e una volta lì fui indirizzato a un sottufficiale che parlava italiano e che con fare distratto mi disse che non avevo bisogno di nessuna veste ufficiale e che ero libero di fare quel che mi pareva.
L’atteggiamento come la risposta non mi convinsero neanche un po’ così tornai al bar degli italiani perché mi i indicassero un avvocato da cui farmi guidare. “Il migliore qui a Mykonos è una donna, una certa Aleka ma prende solo clienti importanti. Ti do un altro nome e indirizzo.”
Io invece me ne andai allo studio di quella che era considerata il migliore avvocato del posto e con una delle proverbiali botta di fortuna mentre sul pianerottolo esterno aspettavo che qualcuno rispondesse alla mia bussata mi sentii dare un colpo nella schiena e ritrovai il cane rossiccio che sfamavo attraverso la finestra del ristorante. O meglio fu lui ad aver ritrovato me e mentre mi chinavo ad accarezzarlo la porta si aprì e una giovane bella donna sentito che parlavo in italiano al cane mi disse che gli piacevano le persone che amavano gli animali e quindi di accomodarmi.
Quando le raccontai perché fossi da lei, contenta dell’apertura di uno studio di tatuaggi sulla sua Mykonos appresa la risposta della polizia, presa su la borsa mi disse: ”Andiamo.”
Quasi irruente affrontò il medesimo sottufficiale e dopo uno scambio in greco che io non capii lasciammo quello con la coda fra le gambe e mi confermò che potevo fare quel che volevo non tralasciando però l’ufficio tasse.
Dopo un breve tuffo nel mare le mattinate trascorrevano al porto dove avevo trovato un locale dotato di un espresso quasi italiano e dove conobbi Michael un olandese prossimo ai cinquanta come me che mi parlò di un locale di italiani in una zona non di grosso transito e di cui mi aveva già accennato Massimo, un napoletano simpatico sposato con una greca, cameriere all’Angolo.
Ci andai con l’olandese per trovarmi di fronte a una scena allucinante. Un locale non grandissimo con tre fiorentini allegri e simpatici, un sottofondo discretissimo di jazz diffuso dagli altoparlanti e in un angolo due ragazze vestite di taffettà e organza da sera come usava nei tempi passati sedute al bancone.
A detta dei toscani erano le entreneuse stipendiate per attirare i clienti che ovviamente non c’erano. Due ragazze dell’est bellocce e timidissime.
“Sarete mica matti? Dove andate con questa musica? Va di moda la salsa e non questo mortorio.”
I ragazzi erano svegli, un gruppo nutrito di soci tutti fiorentini ma lì erano presenti soltanto in tre, e tempo un paio di giorni riempirono il locale e la strada con gente che ballava e musiche sudamericane.
Diventammo amici e dal momento che venne fuori che anche loro erano clienti della stessa avvocato pensammo bene di invitare Alexa per una cena insieme.
Questa accettò ma ponendo come condizione che si cenasse da uno chef che lei riteneva il top dell’isola così che conobbi anche Daniele un senese sveglio e brillante.
La rete di amicizie e conoscenze andava allargandosi e così i clienti per i miei tatuaggi attratti dal cartello messo anche sulla via dove erano obbligati a passare entrando in città e dal passaparola.
I miei clienti su quell’isola dei Gay già isola degli hippies e prima ancora dei vip. Restavano ville e racconti su i Krupp, Soraya, i Kennedy e altre nobiltà che negli anni 70 avevano scoperto quel paradiso seguendo Onassis e diverse stars del cinema e della musica.
Quando io iniziai a vivere là mi capitava la scena di un chissà chi che entrava in città circondato da un nugolo di guardie del corpo o anche, c’era un vialetto che conduceva al mio studio dotato di una porta con finestrella attraverso cui una mattina vidi venire verso di me una bionda molto vistosa vestita in nero ancheggiante su degli altissimi tacchi.
Stavo tatuando, la porta era chiusa e soltanto la finestra sulla porta stessa da cui scorsi l’apparizione era aperta. Tornai con gli occhi sul tatuaggio e quando rialzai lo sguardo della bionda non c’era più traccia.
Lasciai gli aghi in sospeso e andai ad aprire per vedere cosa ne fosse stato di lei e la vidi riversa nel vialetto a pochi passi dalla mia porta le lunghe gambe all’aria parrucca bionda un po’ più in là tacco rotto a penzoloni. Un trans ubriaco dopo chissà che notte.
Ne capitavano come quella che volle una rosellina sulla natica ma si drappeggiò fermamente un asciugamano in modo che io non potessi capire se fosse operata o meno. Mio sommo interesse, come un altro gay giovanissima che si ostinava ad abbassare lo slip mentre lo tatuavo sul costato.
Avevo la clientela più svariata e di ogni nazionalità arricchita dagli incontri piacevoli con belle donne che un tatuaggio a suggello di quella vacanza fuori dalle regole non se lo facevano sfuggire.
Mia difesa se così possiamo definirla era non mescolare mai intrallazzi di genere erotico con il lavoro.
Poi si poteva rivedersi per un drink e conseguente passaggio a casa mia, il soppalco letto sopra lo studio.
Ricordi al riguardo ce n’è tanti come Miss Utah trovata al mio fianco una mattina riprendendomi da un sonno post sbronza.
Bar Tender ne avevo conosciuti e tatuati parecchi per cui quando chiuso lo studio all’una o le due del mattino ben stanco facevo due passi in città era un continuo essere chiamato dalle soglie dei bar: “Pino… ella! Ena sfinacchi!” Sapevano che a quel tempo bevevo tequila e mi tiravano dentro per brindare con uno shottino. Oltretutto pino in greco significa bere.
Tornavo a casa bello cotto e quella volta ad esempio mi risvegliai con Miss Utah accanto. La guardai sorpreso e chiesi chi fosse e come fosse arrivata lì. Mi raccontò dell’incontro e che giunti a casa mi ero spogliato e buttato a dormire. Pareggiammo i conti ma decisi che avrei bevuto meno.

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