Goa 27
Il mio secondo giorno a Mykonos significò andare a fare la spesa accompagnato dalla madre del proprietario nel solo supermercato della città. Arrangiai lo stretto necessario e nel pomeriggio mi feci un breve giro per le viuzze strette e tortuose che finalmente vedevo di giorno. Così strette, seppi in seguito, per costringere i pirati invasori, da sempre tradizione locale, ad avanzare in fila indiana.
Bella la cittadina di non tantissime case evidentemente antiche di non più di due piani e incollate una all’altra.
Nell’area più centrale, dove era anche il supermarket, pochi metri quadri con scaffali su due brevi file e un banco per pane, formaggi e salumeria, su un angolo della strada che portava verso l’ingresso città scovai un baretto con un’insegna che annunciava “Angolo Bar”.
Entrai e mi ritrovai tra ragazzi che parlando italiano si davano da fare a preparare panini e caffè. Ci presentammo l’un l’altro e tra una chiacchiera e un cappuccino venne fuori che ero si chef in quel ristorante che loro conoscevano ma che in realtà ero un tatuatore. Sembrava non aspettassero altro.
Avevano saputo che di lì era passato qualche anno prima un tatuatore forse inglese ma poi di tatuatori non se ne erano più visti. Una fauna richiestissima, sostenevano.
Un giovane cuoco napoletano sopravanzò tutti gli altri e prese ad insistere perché lo tatuassi seduta stante. Mi avrebbe accompagnato nella sua camera e lì potevo fargli una rosa che voleva sul polpaccio. Sorrisi della sua verve ma la ricreazione era terminata e dovetti tornare al mio lavoro.
Di fare paste finte non mi tirava molto per cui mi adattai al loro menù, scritto in un italiano da leggenda, Ragù Boloniese può bastare?, e greco e inglese.
Di avventori non ce ne fu traccia così preparai una cena per la famiglia riunita, me e un botolo di pelo rossiccio che affacciato alla finestra bassa della cucina mi fissava speranzoso.
La mattina seguente mi spinsi fino al porto e mi gustai un espresso fetente mentre osservavo i pescatori rientrare con le barche e lasciare su un banco in muratura dall’architettura orrenda parte del pescato che che poi partiva con dei camioncini in attesa.
Fui individuato dal cuoco napoletano del giorno precedente, Rosario, che mi presentò ad altri suoi amici italiani e che riprese la solfa del tatuaggio subito.
Mi salvò Irini che era riuscita a trovarmi e mi diceva che ero atteso al ristorante. Mario, il titolare, aveva ricevuto delle prenotazioni e voleva che la cucina fosse pronta. Erano attesi quattro clienti. Stranieri. Americani forse.
“A questi gli faccio trovare una lasagna appena sfornata!.” Mi dissi.
Mentre preparavo sorvegliato strettamente dal cane conosciuto il giorno prima sfamato con tutti gli avanzi possibili, consideravo che l’atmosfera dell’isola mi piaceva, così come quelle architetture tanto nuove per me e il mare che avevo soltanto visto aveva un colore simile a quello della Sardegna e anche la gente incontrata fino a quel momento era piacevole ed eterogenea.
La lasagna fu un errore perché i clienti ne furono tanto entusiasti da richiedere doppia porzione e tornare a volerla ancora per la cena tirandosi dietro il resto della troupe, erano lì per girare non so che cosa, una decina di varie nazionalità.
Me la cavai con l’orrida carbonara alla panna e dovetti assicurare che il giorno dopo avrebbero trovato la lasagna.
Mario il proprietario gongolava e così il resto della sua famiglia sempre presente; io riflettevo sull’ipotesi di uno studio di tatuaggi lì sull’isola.
Era stato amore a prima vista ma per realizzare quell’idea c’erano passi precisi da seguire.
Il caffè della mattina dopo nel bar degli italiani significò informarsi degli affitti dei negozi e altre amenità circa case da abitare e licenze. Alessandro, un genovese che lì lavorava, mi suggerì di domandare a un vecchio Mykoniate che aveva un negozio di souvenirs due porte più in là e quello, a cui rimasi simpatico, mi presentò a sua figlia, altro negozio di cartpline, che aveva un appartamento sfitto.
Il tempo di dare un’occhiata a questo stanzone unico ma con un piano soppalacato dove c’era anche un letto e le chiesi di attendere una mia risposta per l’indomani.
La sera fu un’orgia di lasagne e complimenti della troupe inglese americana; la mattina seguente fu trarre il dado fuori dal bussolotto e comunicare ad Eleni che prendevo il suo appartamento.
Comunicare a Mario che mi licenziavo spiegandogli che in realtà ero un tatuatore e non un cuoco fu complicatino.
Udii per la prima volta la parola malaka che i greci usano costantemente anche come saluto tra amici molto in confidenza come noi romani possiamo salutare un amico caro con “Stronzo” usato come esclamazione festosa.
Malaka è un intercalare greco traducibile con l’italiano onanista ma di uso volgare.
Quella sera me lo sentii ripetere a volontà e Mario infine voltò il capo con il disprezzo stampato in volto.
Non mi rivolse più la parola. Lo salutavo educatamente incontrandolo ma era come io fossi trasparente.
Fino ad un pomeriggio di quindici anno dopo in cui, molto sorpreso, lo vidi sulla porta del mio studio.
“Voglio che mi fai un tatuaggio.”
La notte precedente, ubriaco era caduto dal terrazzo di casa sua: tre o quattro metri di volo fino alla strada sottostante. Non essendosi fatto nulla aveva deciso di farsi un tatuaggio. Una Panaghia sulla spalla.
Così il giorno dopo tatuai una madonna di cui mi portò il disegno. Da allora di che si beveva insieme nel bar che aveva aperto.
Prima ancora di arredare il locale che avevo affittato mi trovai sulle ginocchia la gamba di Rosario che non mi dava tregua e su cui lascia una rosa come primo tatuaggio a Mykonos.
Ero libero di vivermi quell’isola a mio piacimento e tra le conoscenze che avevo ormai fatto ci fu chi mi fece una graduatoria delle spiagge accessibili così che il primo bagno nell’Egeo fu a Kappari: una piccola delizia di sabbia raccolta fra le rocce e dipinta di turchese da quelle onde che scoprii però fredde: del Meltemi non mi avevano avvisato.
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A proposito di tatuaggi , conoscevo uno che diceva di avere una rosa tatuata sull’avambraccio ,mentre i suoi amici dicevano che era un carciofo , ma non ricordo il nome…..
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linguaccia. ma è una storia lunga con Gippi e la Bernardini a testimoni.
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Confermo …un Romanesco….io lo avevo sconsigliato … ma Lui fulminato sulla via di Damasco … visto l’artista sul marciapiedi di Kolaba davanti al Rex … non seppe resistere…
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falso. gli è che correvo di più e arrivai dicendo: primo. e la sola la beccai io
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mi sache lo conosco anch’io quel carciofo
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parli del tatuaggio o della persona ?
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ambedue …………….. hahaha
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Tutta colpa del mio ex marito genoveseQuanti ricordi Pino… a mykonos c’è un pezzo del mio cuoreEd il tuo tatuaggio costato 1 dracma, ancora sulla mia mano dal 1998
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I Tatuaggi sono rischiosi: rose, carciofi, pavoni, gallinacci,,,
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Succedeva a Colombo, Febbraio 1973…
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Mykonos….splendida, con le sue spiagge, i vicoli, il porto e l’atmosfera magica, conosciuta grazie a te ed alla tua grande ospitalità, che per anni mi hai ospitato, fatto da guida, traduttore,ecc,E grazie, per i tatuaggi che anche se ancora non c’era la moneta unica, me li hai fatti pagare sempre uguali, sia a Roma, sia a Mykonos, all’esagerato costo di un caffè.Grazie mille
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