Goa 26
Tratto saliente del mio carattere e conseguentemente della mia vita è il disordine e forse va addebitata a questa caratteristica la totale incapacità di trattenere nomi, date o etichette in genere. Spesso anche i luoghi si riducono a immagini fuori d’ogni mappa se non quella della memoria connesse alla sensazione che mi lasciarono.
Sarà poi una mancanza? Il disordine ha significato pur sempre la libertà di saltare sul carro che la fantasia o le coincidenze mi facevano passare davanti.
Da dove arrivò il desiderio di imparare a fare la pizza? Forse una spintarella data da quell’angelo protettore?
Era arrivato finalmente il tempo dei tatuaggi; tempo che durava già da più di quaranta anni ma che finalmente vestivo di ufficialità aprendo un mio studio e dedicandomi a quello con tutta la passione che da sempre destavano in me.
Seguendo gli altri tre, sorella, Sergio e Mario, a Torre dell’Orso dopo una prima estate appoggiato allo stabilimento balneare dove loro gestivano un ristorante, presi in affitto per me una villetta a due passi dal mare accogliente e tranquilla; anche quella in un batter d’occhio piena di amici arrivati da Roma ospiti come da abitudine.
Riesco a circondarmi di amici anche adesso in fase carcere domiciliare tanto che ieri mentre pranzavamo con Tonnarelli e Gamberoni Gippi riferendosi alle battute e agli scherzi che animavano la tavola e avendo ben presente l’età media dei partecipanti, per casa mia ha coniato il nome “Villa Arzilla”. Non sbagliato.
La villetta e lo studio di Torre dell’Orso non ebbero lunga vita perché tornato a Roma in autunno e essendo il tatuaggio ridotto a poca roba da fare dentro casa mia, Roma era ormai invasa da artisti emuli di tale Gippi, mi feci prendere, e non ricordo come venne fuori, dalla voglia di imparare a fare la pizza.
Fabio, un fratello più giovane di Paolo Il Meccanico, lavorava in una pizzeria nei pressi di Piazza Navona e si disse disposto ad insegnarmi l’arte.
Il pomeriggio me ne andavo quasi sempre da lui e messo davanti a mucchi di farina impastavo, stendevo con tanto di mattarello e imparavo i trucchi del mestiere.
Andò avanti per un po’ finché lui ritenne io fossi pronto tanto che una sera mentre una cameriera entrava con un foglietto di ordinazioni nelle mani Fabio si ricordò di qualcosa che doveva fare nell’altra stanza e sparì. La carogna.
Così mi ritrovai da solo a dover fare fronte alla ventina di desiderata di una scolaresca al completo: desiderata fatte di Napoli, Capricciose, Margherite, pochi capperi e tante olive e niente acciughe e ben cotta e poco cotta e il diavolo che se li strafoghi.
24 pizze tutte insieme io non l’avevo mai fatte e quello era il modo per il mio maestro di vedere come me la cavavo. Nessun superstite: me la cavai.
Ogni tanto dalla pizzeria scivolavo nella cucina di un ristorante adiacente e tra una chiacchiera e l’altra davo una mano ad Hamed, marocchino che lì faceva il cuoco.
Trascorrono un paio di mesi e Augusto, primo chef di un ristorante specializzato in pesce poco lontano da dove eravamo noi parte per Mykonos dove l’hanno ingaggiato per la prossima stagione.
Il tempo che lui arrivi in Grecia e poco dopo una sua telefonata mi dice che lì è bellissimo e che ha trovato un lavoro per me come chef in un ristorante italiano. Mi metto a ridere e gli faccio notare che il mio lavoro è fare tatuaggi e non pizze ma lui insiste che sono bravo, glielo ha detto Hamed.
“Ti piacerà”. Mi dice e qualche giorno ancora e richiama per farmi sapere che hanno già disposto per un biglietto aereo e quanto mi danno e l’alloggio.
Ci penso su un istante poi si intrufola quel verme dello why not e decido di andare a vedere di che si tratta.
Mykonos era per me il nome di una delle mete post stagione Goana dove rifluivano verso Ovest amici italiani, americani o europei. Mykonos o Ibiza o Formentera o Gran Canaria.
Non me ne ero mai incuriosito e la Grecia per me era soltanto il nord dove transitavo durante i viaggi per la Turchia.
Quella volta atterrai all’aeroporto di Mykonos dopo uno scalo breve ad Atene che mi ricordava Ciampino. Mi incamminai con un grosso borsone dove dentro non mancava il mio libro de I King. Reo di aver dato parere favorevole a quel viaggio.
“Contiene le monete per interrogare l’Oracolo” stava scritto sulla copertina di un contenitore in cartone rosso e blu dell’Astrolabio che adocchiai nella biblioteca di casa Chapman a via Giulia quando avevo diciassette anni.
“Me lo presti?”
“Te lo puoi prendere. E’ del marito di mia madre.”
Un pittore piuttosto spocchioso che ogni tanto si faceva vedere.
Un aneddoto legato a Moriconi, il pittore, era che teneva dentro una gabbia abbandonata sulla terrazza un merlo che una notte in acido Giuliano e io, impietositi, decidemmo di restituire alla libertà. Tirarlo fuori da quelle sbarre, dargli un bacio sulle piume e lanciarlo verso lo spazio aperto del cielo di via Giulia.
Quello volò diritto contro la cupola della chiesa di fronte a noi e di lì piombò nel silenzio della notte con un tonfo sordo sull’impiantito della strada antica, venendo giù per tre o quattro piani. Eravamo all’attico. Nessuno parlò più per un pezzo tentando di recuperare quell’acido andato storto.
Il libro dell’oracolo era scritto come fosse arabo e a nulla servì di leggere la prefazione di Jung. Lo misi via ma ogni tanto ci riprovavo a cercare di capire cosa fossero quei segni che distinguevano le pagine o capitoli che fossero. Quelle linee nere intere o divise al centro sempre su sei linee e quei titoli che definirei “invero arcane”.
Un anno credo fosse passato e il senso di tutto quello scritto mi si aprì davanti come un paravento richiuso.
Leggevo del Tao in quel periodo e i libri di Suzuki e quelle pagine del I King si aprirono per me diventandomi compagne fedeli.
Alla nascita di ogni figlio ho comprato bottiglie buone del loro anno di nascita e al compimento dei diciott’anni gliene ho fatto dono accompagnandole tutte le volte con un’edizione rilegata del I King.
Mi avevano dato l’ok circa questo viaggetto in Grecia ma non mi avevano avvertito a che cosa andavo incontro. O forse non lo capii.
Arrivai lì intorno alle dieci di sera e non sapendo dove andare così raggiunsi subito Augusto al suo ristorante posto all’ingresso della città. Cenai da lui poi mi esortò a fare una passeggiata in attesa che finisse il suo turno di lavoro.
Mi avviai per stradine in discesa con l’acciottolato dipinto di strisce bianche che contornavano i lastroni rotondi. Ai miei fianchi scorrevano negozi carichi di luci e di souvenirs e cartoline. Qualche boutique.
Allontanandomi dal centro le strade si facevano meno illuminate fino a una piazzetta con un paio di lampioni soltanto, una scala che scendeva al mare di cui sentivo la risacca sulla sinistra e a destra un muretto basso e lungo dove qualcuno stava praticando una fellatio certo non disturbata dal mio passaggio. Più in là un signore con i pantaloni abbassati, le braccia contro il muro di un caseggiato buio si faceva penetrare da un altro molto preso dal compito e io scelsi di accelerare il passo per allontanarmi da loro e da altri groppuscoli che scorgevo indaffarati.
Tornai per tempo dal mio amico e mentre mi accompagnava a quella che sarebbe stata la mia casa mi spiegò che Mykonos era famosa per essere l’isola dei Gay. “Simpatici, però. Nessun pericolo per noi.”
Il giorno dopo nel loculo che doveva essere il mio alloggio arrivò la sveglia della sorella del proprietario del ristorante. Nome che è un si fa per dire.
Uno stanzone d’angolo in una casa bianca con finestre e porte azzurre uguale a tutti gli altri: colori bandiera di tutte le Cicladi scoprii più avanti. Era la mia prima Grecia del Sud e avrei imparato ad amarla ma quella era la mia prima mattina e non sapevo che sarebbe anche stata la mia prima lezione.
Insegnante fu Irina, la giovane sui vent’anni che aveva provveduto a svegliarmi e ad accompagnarmi a quello che sarebbe stato il mio luogo di lavoro poco distante dal loculo.
Erano tutti riuniti nella sala ad aspettare me: proprietario, un giovane sui trentacinque con moglie e credo un bambino, moglie, la madre più o meno della mia età rigorosamente in nero e un’amica presente per l’occasione.
Fu proprio questa quando Angela, la madre del titolare disse: “Dai, facci qualcosa da mangiare” che intervenne: “La mia preferita è la Carbonara. La sai fare?”
Credevo di si ma per cominciare in cucina non trovai traccia di paste corte; solo spaghetti e scelsi di adattarmi.
Irina mi seguiva passo passo così quando dopo aver abbrustolito un guanciale che era in realtà bacon tedesco più prossimo a un prosciutto cotto cercai le uova da sbattere mi guardò sorpresa ricordandomi che la carbonara non si fa con le uova ma con la panna.
Il clou della lezione fu quando la avvisai che la pasta era ormai cotta e che mi apprestavo a scolarla fu il suo tirar su dall’acqua uno spaghetto gettarlo contro le piastrelle della cucina e guardarlo scivola giù fino al pavimento.
“Non è cotta ancora.” Mi redarguì e cinque minuti dopo quando un nuovo spaghetto lanciato con abituale arte restò incollato alle mattonelle: “Ecco. Adesso è giusta.”
-
Io ne ho tanti…. Sailor Jerry, etc.Sempre belle le tue storie di vita vissutale tue storie mi cambiano la giornata, grazie
-
-
Grazieyou light my day too
-
-
In California quanti mi dimostravano orgogliosi il loro soffitto coperto di fili di spaghetti per farmi capire che avevano una competenza nella cucina italiana !
-
stessa notizia mi viene da una mia amica inglese , alla quale il fratello chef aveva insegnato il metodo “lancio sul muro “. Gli anglo-sassoni non si fidano delle loro capacità di assaggio (if any ).
-
-
certo la carbonara col guanciale tedesco e la panna e’ tutto un programma!il tuo arrivo nell’Isola mi ha ricordato il mio … forse lo scriverò… forse…e daiii
-
-
Con stecchi di Achillea millefoglie sarda.
-
AttivoUn raro collega
-
-
Ricorda che oltre che pseudo chef hai anche un glorioso passato , brevissimo,da cameriere…
-
er mejo
-
non ho mezzi adeguati e , come ben sai, capacita’ tecniche…Comunque come cameriere se insistevi potevi avere sicuramente un futuro niente male…
-
-
-
- 0
- 0
- 0
- 0
- 0
- 0
- 0
- 0
- 0