Goa 25

4 marzo

non ho altro da fare, per cui:

 

Goa 25

Arrivò un gruppetto di giovani, un paio di loro erano stati clienti della mia edicola, con un’idea che subito mi piacque: una rivista che annunciasse quanto avveniva a Roma riguardo concerti di musica, mostre, teatro e vita della città in genere.

La Reubblica, il quotidiano ci mise qualche mese a copiarci l’idea con il Trovaroma, ma noi eravamo lancuati nell’impresa con entusiasmo.

Sette soci mi sembra di ricordare con un investimento modesto e incarichi precisi per qualcuno di noi. A me come ex edicolante toccò il tenere d’occhio la distribuzione della rivista e subito mi accorsi che la nostra sarebbe stata la milionesima pubblicazione confusa su banchi e scaffali.

Il giornalaio comincia la sua giornata all’alba restando spesso lontano da bar e caffè quindi ebbi l’idea di un omaggio per loro che ci facesse ricordare: un buon thermos che comprammo in grossa quantità.

Toccava a me e ad un gruppetto di ragazzi salire in motorino e girando per la città fermarsi a scambiare due chiacchiere con l’edicolante, fargli dono del presente e invitarlo a mettere bene in mostra la nostra rivista.

Ne ho incontrati tanti e qualcuno vero personaggio.

Non durò più di tanto ma ne derivò una amicizia che ancora persiste con un bolognese roscio e sensibile e la scoperta del Mac che mi arrivò omaggio dalla ditta che aveva installato quei computer in redazione e uffici.

“Come funziona?” Domandai.

“E’ intuitivo. Lo capirà da solo.”

Me lo portai a casa e dopo due giorni lo accesi e cominciai a muovere il mouse. Il terzo giorno traslocavo il mio Pc con Windows 3.1 sotto la scrivania per mai più risuscitarlo.

Tempo qualche mese la concorrenza invase il mercato e noi si fallì e qui ci fu la riunione in cui si annunciava la bancarotta.

La maggioranza decise per una rotta generale lasciando insoluti anche gli stipendi della decina di dipendenti. Non lo trovavo giusto e mi opposi ma la maggioranza aveva deciso, così nottetempo mi feci avanti e indietro dagli uffici alla macchina caricando tutti i computer che potevano entrarci.

Quando il giorno dopo una telefonata mi aggiornò del furto avvenuto dichiarai che avevo tutto io e li avrei restituiti solo a personale pagato.

Chiusi male con i soci tranne che con il bolognese e un altro che si disse d’accordo con me e chiusi una nuova parentesi della mia vita per aprirne un’altra.

In quel periodo incontrai per l’ultima volta, ma finché si è vivi non si può mai sapere, Jean-Pierre che da qualche anno non vedevo. Si era fatto una vacanza non lunghissima nelle carceri francesi per una storia di cocaina di cui vale la pena raccontare gli antefatti.

Il personaggio innanzitutto: pallido, magrolino, occhialini cerchiati di metallo, faccia e aspetto di un seminarista lo avevo conosciuto tramite la mia amica con boutique extra lusso nel cuore di Roma a cui lui forniva borse di sua creazione veramente belle e uniche che lui stesso fabbricava. Si faceva aiutare da una donna di cui era innamoratissimo che aveva avuto una bambina da un precedente uomo che lui accudiva come un padre.

Venne fuori dall’amicizia che si creò tra noi che altre attività lo portavano a Roma tipo il furto di barche, era un ottimo marinaio, sulla riviera francese per rivenderle ad Anzio o Civitavecchia.

Inoltre il ragazzo era l’erede di uno dei nomi più antichi della nobiltà d’oltralpe, assolutamente spiantato ma il blasone gli apriva le porte delle magioni dei sangue blu romani.

Adocchiava il quadro o il soprammobile giusto e raccontava che fosse facile intrufolarsi e portar via l’oggetto prescelto.

Una sorta di Arsenio Lupin che una volta durante un pranzo a Parigi mi dice che è stanco di quella vita: vuol fare un business con la cocaina e da me vuole che gli insegni a fabbricare le Samsonite a doppio fondo.

Compriamo le resine, facciamo lezione poi vuole da me un contatto in Sud America.

Avevo all’epoca un amico ufficialmente produttore cinematografico in realtà trafficante instancabile che sapevo in quel momento a Caracas.

Telefonata e a quello dico che sto per mandargli giù mio fratello. Quello capisce al volo e dopo un po’ Jean-Pierre parte.

Non so più nulla di lui finché per strada a Roma incontro il produttore. Baci e abbracci poi mi fa: “Ma chi mi hai mandato a Caracas? Il giorno stesso che è arrivato io andavo a un vernissage importante e lui è venuto con me. Dopo un po’ l’ho visto chiacchierare col ministro della cultura poi dopo avermi fatto un cenno se n’è andato con lui. Il giorno dopo un autista è venuto a prendersi la sua roba e non ne ho più saputo nulla.”

Arriva la segretaria, stavo nello studio sopra i negozi della mia amica in quel momento, e mi dice che c’è il signor Jean-Pierre alla porta.

“Fallo entrare.” Dico e quello arriva mi sbatte sulla scrivania una ventiquiattrore: “Due chili.” Mi dice.

“Ma sei matto?” è la mia risposta piuttosto attonita.

“Me l’hanno data a credito.”

“Jean-Pierre, in quel mondo si fa. Si lascia partire un corriere che poi si fa prendere per far passare carichi più grossi. Due chili poi, pura come sarà sul mercato di Roma creano un marasma.”

Cerco di farmi venire un’idea e chiamo un mio amico che so in contatto con la simpatica Banda della Magliana che all’epoca governava Roma.

Ci incontriamo con uno di loro, li presento e mi defilo.

Non passa un mese che la segretaria mi annuncia Jean-Pierre che appare completo di valigetta.

“Oh no! Te la vedi tu da solo!” E lo butto fuori.

Seppi che faceva avanti e indietro fino a guadagnare i soldi per ricomprarsi il castello di famiglia in Bretagna finché fu venduto dai soci e perse tutto facendosi un po’ di galera.

Ci siamo rivisti una volta chiusa la faccenda e di nuovo faceva borse sempre eleganti. Stava ancora con la stessa donna e la bambina era cresciuta. Chissà oggi?

Terminata l’attività editoriale mi rimaneva Torre dell’Orso dove un paio degli antichi soci del Cay Shop e mia sorella gestivano durante l’estate un ristorante sulla spiaggia dove io mi appoggiavo per aprire uno studio di tatuaggi stagionale.

Qui si apre un capitolo della mia vita radicato ai miei quattordici anni quando il fiocinatore di Achab aveva colpito la mia curiosità con quel corpo ricoperto di segni e disegni.

Roba da malavita sapevo, ma mai vista direttamente.

Poi Papillon e l’informazione di legare insieme tre aghi e intingere nella china e bucherellarsi la pelle seguendo un disegno.

Un vinaio sulla via Tuscolana ex carcerato fu la mia fonte di informazioni al riguardo e anche quello che divertito dalla mia curiosità e dall’entusiasmo che mostravo mi mise insieme una macchinetta per tatuaggi stile “bottega” con un motorino di registratore.

I primi sfregi preziosissimi sulle mie gambe sono di quell’epoca e i primi disegni sulla pelle di un amico, e qualcuno per fortuna è ancora vivo e può fungere da testimone; il tatuaggio era una passione inalienabile.

Sempre fatti anche quando in giacca e cravatta giravo tra sfilate di moda e alberghi c’era sempre qualcuno che attraverso il passaparola arrivava per chiedermi tatuaggi vari.

Una nottata rimanendo a dormire nella villa di Cavalli a Firenze e al mattino bagno in piscina con gli altri ospiti esterrefatti e sorpresi.

Come tatuatore mi sentivo ben lontano dall’arte. Più prossimo a uno sciamano marchiando un altro umano.

L’epoca dell’Aids e il Pellecchia che arriva e porgendomi un badge con sopra la lingua dei Rolling Stones dice: “ A Pinoci’ c’ho l’Aids. Un tatuaggio me lo fai ugualmente? Quando arriva la morte je vojo fa’ ‘na linguaccia.”

Che je dici di no? Morì qualche mese dopo.

Dovevo guadagnare soldi per mantenere una famiglia e i tatuaggi fino alla fine dei settanta rimanevano roba per malavitosi, nobili e drogati. Ti pagavano alla Tramaglino con un cappone o uno spinello.

Poi una mattina al mercato di Mapuca, io, Boccanera, il solo oltre a me a far tatuaggi in città e Gippi, girando tra i banchi ti vediamo un tatuatore indiano con la sua attrezzatura e qualche macchinetta da vendere.

“Ahò! Io mi metto a fare tatuaggi.” Gippi il perenne scontento che ci angosciava col non poterne più di fare lo steward per l’Alitalia con perspicacia aveva deciso: si comprò le macchinette, altre le trovò nei viaggi in giro per l’Europa e pochi mesi dopo prese partita Iva e aprì bottega.

Era in televisione, al Costanzo Show dopo pochi mesi mentre io gliene dicevo di tutti i colori per aver declassato la sacralità del tatuaggio a business da mercanti.

Aveva ragione lui. Ad un certo punto mi dissi: “Ma se è quello che ti è sempre piaciuto, perché no?”

 

 

Mi piace: 20Sergio Baldi, Alessandro Antonaroli e altri 18

Commenti: 3

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John Flores

Bellissimo… scoprire come siete entrati nel campo. Anche a me i tatuaggi sono sempre piaciuti e ne ho 5, uno dei quali ricopre un disegno precedente. 2 dei quali, fatti da Nalla Smith (Che Gippi ha conosciuto a un raduno in Italia) quando fu compagno di mia figlia per 8 anni. – Come si chiamava la vostra rivista poi copiata dalla Repubblica? Ne hai copie?

 

Pino Cino

“Città aperta” era il nome e ho tutte le copie. Vedrò di pubblicarne una

 

Mara Italiani

Bravo PC

 

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