Goa 2
Qualcuno dopo la prima pagina su Goa mi esorta ad andare avanti. Amici e lettori occasionali, rendetevi conto che non ho alternative se non starmene alla tastiera inseguendo i tasti a memoria e con il Mac che mi sottolinea in rosso gli strafalcioni da battitura. Non leggo un libro dall’agosto scorso quando le metastasi donatemi dal brutto male, il male del secolo, quello incurabile, shhhh… che non si dice, il fottuto cancro insomma, affacciatosi ormai da sei anni, si erano presentate al cervello. Quindi, in un immondo sfasciamento di zibitei, potendo fare ben poche attività, non mi resta che scrivere, un po’ Omero, un po’ Borges. Adesso che ci sono mi domando come cacchio abbiano fatto quei due.
Tornando a Goa, o meglio arrivandoci, mi resi conto che dei cavalli liberi del Boccanera non c’era traccia e che bisognava da subito affrontare aspetti pratici abbastanza scomodi.
Innanzitutto una casa dove trasferirsi a vivere dal momento che la pensione locanda, la sola oltre l’albergone governativo costava bei soldi. La pensione era di proprietà di una coppia di Goani rientrati dagli anni di emigrazione in Sud Africa. Gentili e amichevoli, ma a noi serviva di spendere meno. Eravamo lì per restarci aspettando gli altri due disgraziati che erano andati a prender su le donzelle.
Mi guardai intorno e mi resi conto che le bellissime case tra le palme erano abitate dai Goani pescatori e che le più belle, a circondare i pozzi, erano chiuse. Non volevano affittarle. Il mercato non aveva ancora stravolto le loro abitudini.
Di altri stranieri c’era scarsa traccia anche perché stava appena finendo la stagione dei monsoni; feci però conoscenza con qualche locale e uno di loro mi suggerì di rivolgermi al Priore dei Salesiani, un italiano, nella vicina Panaji che era buon amico della famiglia proprietaria di un bellissima grande casa a cinquanta metri dalla riva del mare.
Figurarsi se poteva spaventarmi un Salesiano. Consideriamo che Goa era stata territorio metropolitano portoghese fino a nove anni prima e i Goani al novanta per cento erano cattolici, il panorama era pieno di chiese e cappelle, e noi italiani eravamo accolti come fratelli. Pretendevano pure che tu capissi il portoghese con cui ti rivolgevano domande e discorsi.
Autobus e incontro col Priore: un mezza età di Frosinone in abito bianco, un paio di lodato sia e esibendo il mio curriculum da elementari dalle Teresiane, medie dai Salesiani vicino Termini tralasciando che lì ci avevo retto un mese scarso, ottenni che intervenisse lui con i De Sousa come mi disse si chiamavano i proprietari della magione. Mi diede l’indirizzo del loro negozio di articoli religiosi a Mapuca e mi lasciò andare con relativa benedizione.
Lo scomodo viaggio via terra fin lì attraverso i deserti iraniani e afghani mi aveva costretto a rinunciare agli shampi e alla cura maniacale che prima dedicavo alla mia chioma, così, con un aspetto plausibile, mi presentai dai De Souza nella loro elegante bottega al mercato di Mapuca, una quindicina di chilometri da Calangute.
La casa fu nostra: sei camere, un paio di saloni, una cucina, una veranda e un pozzo esterno di cui comunque si serviva tutto il vicinato, qualche casetta evidentemente più povera appena discosta. Casa meraviglioso e cinque dollari al mese il costo a quei tempi, con il solo difetto che veniva regolarmente il proprietario a ritirare l’affitto e immancabile appena scorgeva la chitarra, se la nascondevamo la chiedeva, prendeva su e appoggiato un piede su uno sgabello attaccava “Blue Moon” che un miagolio o un raglio sarebbero stato più armonici. Una volta al mese come una tassa.
Scoprimmo, noi gente di città, cosa significasse un pozzo che ci dava l’acqua da bere e all’alba ci vedeva fare le dovute abluzioni. Stoviglie, usate su un fornello a kerosene dal momento che in tutta l’area non c’era alcuna traccia dell’elettricità, insieme a piatti e forchette li lavavamo al mare e la sabbia era il migliore dei detersivi.
Il tempo trascorreva sereno per me che avevo ripreso a dipingere e gli altri due che stavano sempre con le chitarre in veranda; cominciarono pure le partite di pallone davanti casa a cui si aggiunse presto qualche giovane pescatore.
Capitava anche di andare ad aiutarli per la pesca.
Preparavano tutto e salpavano verso le dieci della mattina con questo grosso barcone completo di bilanciere e descrivevano un ampio semicerchio nel mare antistante mollando nell’acqua la rete. Tornati a riva e tirata in secco lo scafo, infilavano dei grossi bastoni nella rete rimasta e appoggiata la metà del bastone dietro la schiena, a coppie prendevano a marciare all’indietro con un ritmo lento scandito da un vecchio che dava il ritmo e quasi costantemente accompagnati da loro canti cadenzati. Quando il semicerchio si riduceva a poche decine di metri saltavano dentro l’acqua armati di grosse ceste che riempivano di quel brulicare folle di pesci saltellanti, per svuotare le ceste sulla spiaggia e correre a ripetere l’operazione nell’acqua sempre calda.
Aiutarli significava tirare la rete all’indietro e non era comodo camminare all’indietro sulla riva scoscesa. A raccogliere il pesce dentro l’acqua impazzita di pescato con le ceste ci provai una volta e ancora ricordo come fu ridotta la mia pelle bianca di cittadino in trasferta.
Maccarelli, gamberetti, molluschi di ogni tipo e una folla di altri pescetti che poi venivano stesi sull’arenile per seccare al sole e creare la scorta invernale di cibo.
Particolare affascinante in proposito era che tutto questo ben di dio veniva steso su una ventina e più di metri quadri di arenile e al tramonto ricoperto da un telo.
Altri abitanti di Goa, oltre ai maiali cui occorrerà dedicare due righe, erano i corvi. Una marea sterminata di cornacchie nere perennemente gracchianti ma così presenti tra noi umani che più avanti, avendoli osservati bene, mi convinsero a comprare due libri in inglese che trovai nella libreria di Panaji proprio sui corvi.
Tutte le mattine le donne arrivavano a scoprire quella distesa di pesci dei giorni precedenti e subito una nuvola nera di cornacchie prendeva a volteggiare in attesa che le donne si allontanassero lasciando quel cibo prelibato ai loro becchi. Ma tolto il telo, una donna spariva dentro il casottino di canne che avevano costruito ai bordi di quel deposito. Ne usciva portando in spalla una lunga pertica con in cima appeso un corvo morto. Parenti e amici della buon anima prendevano a vorticare sopra il capo della donna finché questa, arrivata al centro dello spazio, piantava in terra la pertica. A quel momento un altro paio di giri e i corvi sciamavano lontano da lì senza farsi più vedere: messaggio recepito.
L’altro animale goano tradizionale era il maiale nero e ben pasciuto a cui era affidato il compito di tener pulito l’ambiente. Fornivano anche delle braciole come non ne ho più mangiate ma parecchi occidentali le rifiutavano dopo aver costatato che non appena ti infilavi dentro un gabinetto, due piccoli muretti alti un metro scarso e circondati da canne che coprivano la vista, quelle immonde bestie si precipitavano per raccogliere il manicaretto ben caldo. Uno degli sport era centrarli sulla testa.
Goa era pulitissima e del vantaggio mi resi conto capitando più avanti in qualche villaggio dove la preponderanza musulmana evitava i maiali.
Altre bestie era una moltitudine di cani di pura razza bastarda che circolavano indipendenti tra una sassata e un furto di cibo. Gatti ben pochi e spelacchiati. Serpenti di più ma difficile si avvicinassero all’abitato.
Nell’insieme un mondo ben distante da via Tagliamento e dalle abitudini che avevamo. Adattarsi fu una costante.
Per fortuna cominciarono a farsi vedere anche i primi altri stranieri. Era l’estate del 70 e Goa era un nome che andava diffondendosi. Citerò tra i primi che apparvero lì a Calangute un architetto genovese, che genovese poi non era ma procedeva con belin di qua e belin di là appena apriva bocca, che con le unghie laccate di azzurro e un codino in stile mandarino viaggiava insieme alla sua donna lombarda.
Gran bell’amico diventò senza essere portato via dal tempo e la distanza. Se l’è portato via il cancro qualche mese fa interrompendo le nostre telefonate che negli ultimi anni cominciavano sempre con “Rottame uno a rottame due.”
Oggi sarebbe stato il suo compleanno e quindi oggi di lui a Goa volevo parlare. Chissà quante memorie avrebbe tirato fuori non come quell’inaffidabile del Boccanera che ho chiamato perché mi desse conferma che Mariella, la donna di Sever, fosse lombarda e che se n’è venuto fuori che lui al gabinetto a Calangute ci andava con un sasso per tener lontani i maiali dalle sue preziosità.
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