Goa 19
Stracci e straccetti servivano per andare avanti mentre tutto intorno i 70 avanzavano rivoltando situazioni che sembravano essere ben solide ma che finivano per colorare il mondo intorno di cupezza e disperazione.
Il terrorismo aveva traslocato attraverso gli slogan scanditi nelle piazze, spesso palesemente idioti, nei morti di cui leggevi sui titoli e nelle discussioni di amici che avevi sempre considerato innocui. Personaggi ineffabili arrestati perché trovati armati o colti con le mani nel sacco tra gambizzazioni o peggio.
Una fase storica in cui siamo passati tutti noi di quelle generazioni; era il sobbollimento degli anni dopo il 68 che aveva lasciato fin troppi delusi pronti a saltare su qualche carrozzone senza approfondire più di tanto chi fosse a tirali per la manica.
Era un gioco pericoloso che coinvolgeva amici insospettabili e a niente serviva dirgli che nasceva ben al di sopra delle nostre teste e aveva mire ben discoste dalla realtà di noi ventenni.
Personalmente venivo da sane tradizioni familiari di stampo fascista ma non mi ci era voluto molto a guardarmi intorno e alle spalle per accorgermi che di sano non c’erano né tradizioni né ideali.
Il contrasto tra la parola del Cristo che sbandieravano da quando ero bambino e i denti digrignanti verso i diversi e quelli di un altro colore e a chiunque non marciasse con loro suonava falso fino al ridicolo. Dall’altra parte, altrettanto grottesco, sventolavano discorsi di eguaglianza e di pace.
Ovvio approdare a una scelta pur con la consapevolezza dell’inutilità di tuffarsi in un campo o nell’altro.
Certo veniva più naturale mischiarsi con questi piuttosto che con gli altri ma ritrovarsi davanti alla scheda elettorale nel chiuso di una cabina era davvero bizzarro.
Quello però era il tempo dei miei vent’anni e tutti i giorni significava tutti i giorni con la necessità di districarsi tra bisogni materiali e scoperte che in quei tempi approdavano alla coscienza come vomeri inarrestabili.
Stracci e straccetti perché così mi era capitato ma l’occhio sempre attento a qualsiasi cosa nuova offrisse stimoli alla mia inventiva e voglia di fare.
Un cameraman americano capitato sulla mia strada tornava negli States dopo averi girato qualcosa in Italia nel business moda che cominciava allora a farsi conoscere. Aveva con sé un attrezzo tipo cinepresa con una serie di cavi collegati a un cassone di plastica e metallo lucido. Dentro questo affare enorme e pesantissimo c’erano due bobine di nastro sensibile su cui registravi quanto vedevi nell’obbiettivo della telecamera.
Wow! Mai visto prima niente di simile. Così lo comperai da lui e dopo averlo testato tra amici e famiglia scoprii che era talmente nuovo e raro che mi piovvero subito addosso degli ingaggi.
Era il settembre 1976, santo Google ovviamente, e doveva esserci il Festival Nazionale dell’Unità. Il quotidiano Repubblica mi spedì lì a fare dei filmati che ovviamente feci a modo mio.
Il più bel filmato fu a mio non condiviso giudizio un audio.
Mi ero infilato dentro la Mostra d’Oltremare perché avevo saputo che era stata occupata da quanti contestavano il Festival e lì nell’anfiteatro davanti a me sedevano sui gradoni degradanti qualche centinaio di giovani con bandiere e striscioni dei Disoccupati Intellettuali Organizzati. Giravano all’epoca anche sigle di cotanta creatività.
Li avevo schierati danti a me così imbracciai la telecamera e presi a filmare l’adunata ma subito da loro si staccarono un paio di tizi che vennero a dirmi che non volevano io li filmassi.
Accolsi l’invito e abbassai a terra la telecamera ma lasciai accesso il registratore che così raccolse lo stupendo audio di qualche centinaia di lattine di birre e bibite farcite con qualche sassolino ciascuna agitate a ritmo dalle mani di quei ragazzi. Un concerto per me e per i celerini completi di fascia tricolore, elmetto, scudo, manganelli e tromba che erano arrivati a riempire l’arena e gli spalti di rimpetto. Meravigliosa musicalità do un ritmo che era sfida e trionfo.
Tutti quei giorni a Napoli furono occasione di incontri e filmati inaspettati.
Ero ospite a casa di un giornalista della Repubblica e una mattina svegliatomi fui tirato giù dal letto dai suoni che arrivavano dal cortile di quell’antico e maestoso palazzo su via Caracciolo.
Scostai appena la veneziana e puntai l’obbiettivo su quelle finestre quasi tutte spalancate ma vuote che mi vidi di fronte. Una panoramica per poi arrestarmi su una, un paio di piani più bassi da dove io ero, dove nel riquadro scuro di una stanza si stagliavano due figure femminili illuminate dalla luce del primo giorno.
Una, piuttosto anziana, sedeva su una seggiola assorta a grattugiare una forma di cacio con fare lento e continuo. Su uno sgabello, appena più basso, sedeva una giovane vestita completamente di nero, magra, i capelli tirati indietro e un naso bianco, visibilissimo che subito mi riportò a Copì e le sue vignette.
La giovane parlava all’altra in modo veemente e accorato, gesticolando come fosse un inno alla napoletanità.
L’altra continuava quel moto ritmico di su e giù della mano sopra quella grattugia apparentemente indifferente.
Io filmavo e come sonoro avevo i suoni di quel cortile napoletano, con richiami, cinguettii e ogni tanto il passaggio di un tram non lontano.
Poi la ragazza scoppiò a piangere continuando a parlare e gesticolare finché la vecchia staccò con le dita un pezzetto del cacio e preso fra le mani il mento della ragazza le mise quel boccone tra le labbra. Avvolse il cacio in un panno, se lo pose sulle ginocchia e cominciò lei a parlare alla giovane, gesticolando come quella faceva fino a poco prima.
Chissà che le disse ma dopo un po’ ridevano insieme e solo la vecchia parlava. Chissà che le andava dicendo.
Un capolavoro di filmato da fare il paio con quello che non ho girato nel Carcere Minorile di Nisida.
Arriva un invito per i giornalisti presenti al festival di andare a visitare il Carcere di Nisida e io mi precipito lì.
Una volta arrivati in questo stupendo antico forte su un mare meraviglioso, montai la mia attrezzatura e cominciai a filmare il luogo e la fauna che avevo intorno: turbe di ragazzini fra i 13 e i 18 anni che se ne stavano a gruppetti a ridosso dei muri o seduti su panche sparse in un cortile spoglio.
Arrivò subito un signore in giacca che si presentò come il direttore e mi intimò di levare tutto perché li non erano ammesse cineprese. Gli spiegai che era una telecamera e che avrei girato un video che lui avrebbe poi potuto rivedere e approvare o far cancellare. Restò perplesso davanti a questo marchingegno mai visto prima e mi lasciò andare avanti col filmato.
La fortuna fu il tatuaggio che sul mio braccio sporgeva dalle maniche arrotolate della camicia. Un gruppetto di ragazzi si avvicinarono a me e: “Uè, fra, ce si cascato pure tu?”
Ero uno di loro, così cominciarono a farmi domande e si lasciarono riprendere mentre gli spiegavo che poi si sarebbero rivisti in televisione.
Anche questo come gli altri è un filmato che ancora conservo ma quello che non potetti filmare fu quando con il permesso del direttore attaccai il registratore a un televisore e mandai quanto avevo girato.
Si riconoscevano nello schermo, era la prima volta che gli accadeva e scherzavano, si sfottevano a vicenda e, seduto a terra in mezzo a loro, stava pure il direttore coinvolto vedendosi in tv. Il tutto in puro slang napoletano e grandi risate. Ma io questo non potevo filmarlo. Per sempre arghh!
Dopo Napoli e la Repubblica mi arrivò un incarico presso un grande albergo di Palermo, oggi raso al suolo dopo essere stato implicato in faccende di mafia dei proprietari.
Un cinque stelle estremamente lussuoso sovra affollato in quei giorni. Era in corso un congresso così che tutte le camere erano piene di americani o per meglio dire siculo americani. Lo strano lavoro per cui mi avevano assunto e fatto arrivare lì consisteva nello scendere nella sala convegni verso le nove del mattino e montare la mia attrezzatura inquadrando un ampio tavolo e una lavagna antistanti una platea, vuota quando io arrivavo. Ogni mattina mostravo a un tizio quale fosse il tasto per avviare registratore e telecamera e quale tasto per la pausa e l’arresto. Fatto ciò ero libero fino alle 16 avendo anche a disposizione una macchina con relativo autista che mi portava a scoprire Paledrmo. La Vucciria, chiese, musei, bancarelle in quartieri remoti con dei cucinati deliziosi e il bello era che dovunque le òie curiosità si spingessero, l’autista che mi accompagnava, Tore, sempre lo stesso sembrava essere ben conosciuto e rispettato.
Alle 17 ritorno alla sala convegni e sotto l’occhio del tizio della mattina dovevo cancellare il nastro e montare quello per la mattina successiva.
Nel complesso un bel mistero che tentai di chiarirmi facendo sparire tipo gioco delle tre carte una pizza impressionata cancellandone una vergine. Col pretesto di una manutenzione mi portai il registratore in camera ma tutto quello che appariva nel filmato erano grafici fatti su quella lavagna e voci che discorrevano di capitali e investimenti e nominavano diverse città americane e nomi immagino di strade che io non conoscevo. Rimasi nell’ignoranza.
L’ultimo giorno c’era grande eccitazione nell’aria: sarebbero arrivati i capi. Un gruppo di signori riveriti da tutti, politici vari a me sconosciuti, poi da Roma arrivò Andreotti accolto sulla porta dell’albergo con uno scambio di baci da un signore siciliano piuttosto traccagnotto. “E quello chi è?” domandai al direttore che era a fianco a me. Meglio che non lo sai”. Fu la risposta.
Il tema tornò in auge qualche anno dopo quando il direttore mi telefonò per dirmi che aveva fatto il mio nome tra quelli presenti allo scambio di baci fra Andreotti e Riina. Me ne tirai fuori dicendo di non ricordare niente e che comunque mi sembrava soltanto l’ennesima presa in giro: avrebbero tirato per le lunghe il processo fintanto Andreotti, giù ben vecchio, fosse morto, dissi liquidando la faccenda ma sbagliavo: Andreotti fu tranquillamente assolto.
Volo di ritorno a Roma con un discreto gruzzolo in tasca e pronto a seguire un nuovo progetto che mi era balenato in testa. Il porno italiano, che faceva capolino allora, visto dall’interno.
Avevo conosciuto tal Mauro, fotografo e produttore dei fotoromanzi pornografici che cominciavano a invadere le edicole, prima sottobanco e poi offerti agli occhi di tutti, così mi accordai con lui per seguirlo sui set provare a convincere attori e attrici a farsi intervistare.
Avevo dapprima domandato a lui che tipo di gente frequentasse quell’ambiente e mi sembrò ne potesse venir fuori qualcosa intrigante.
Un po’ do imbarazzo al primo impatto ma eravamo tutti romani e tra una battuta e l’altra si ruppe il ghiaccio. Appartamenti che il proprietario lasciava a disposizione per un’intera giornata e una troupe di tre o quattro persone addette al trucco e alle luci. Poi gli attori. Donne che ho visto spesso diverse e uomini, ragazzi giovani per lo più, che erano pagati meno della metà rispetto alle attrici e che arrivavano numerosi al mattino per andarsene un’ora dopo avendo mietuto debacles che solo loro non si aspettavano. Erezioni disertate, eiaculatio più che repentine: l’unico ben pagato e fisso sul set di Mauro era un certo Ilario, impiegato di banca, che se ne stava magari a farsi una briscoletta con un addetto alle luci, nudo, completo di parrucca e baffi posticci ma che alla chiamata per il “si gira” entrava in una rigidezza impassibile nei pochi passo fino al set.
Erano scatti fotografici scanditi dalla voce del fotografo regista: “Fai la faccia che godi! Apri la bocca!”
Da ridere ce ne sarebbe stato in abbondanza e la più bella risata ce la regalò un avvocato che aveva affittato il suo attico piazzando dalla sorella i figli piccoli e rimanendo sul posto insieme alla moglie e al suo alano.
Giunse una telefonata della zia che aveva problemi coi bambini e lui se li feci passare e iniziò, assumendo il tono del papà burbero: “Fate i bravi eh! Non fate arrabbiare la zia se no viene papà e vi fa tottò!”
Il tutto registrato dalla telecamera mentre sullo sfondo passava l’alano e si andava realizzando un coito appassionato.
Le attrici, una bidella in una scuola romana, un’altre commessa e un’altra ancora impiegata di non so quale ministero si lasciarono intervistare tranquillamente al riparo di mascherine e proprio la commessa giovane e piuttosto bella tentò di farmi un tiro mancino.
Mi telefonò dicendo di dovermi parlare in privato e di raggiungerla a casa sua. Un monolocale dalle parti di viale Marconi dove mi accolse più nuda che vestita partendo dal non riuscire a non pensarmi e che quanto le piacevo e stringendosi a me e poi, visto il mio diniego sembrava proprio definitivo, scoppiando a piangere e raccontandomi di essere incinta e di non saper come fare ad abortire.
La caricai in macchia il pomeriggio successivo e la lasciai da un paio di mie amiche: era il periodo dei piccoli gruppi o centri femministi che dir si voglia, sparsi per tutta Roma.
In contemporanea al mio documentario Anna Carini inseguiva un altro progetto e aveva fatto venire dalla Francia una signora esperta del mestiere che in un appartamentino del centro storico riceveva gentiluomini vari celando una telecamera dietro uno specchio trasparente.
Quando già si parlava sui giornali della prossima uscita del documentario di Anna piovve dall’alto un fermi tutti e la programmazione fu annullata.
Mi informai ma mi resi conto che sarei incorso nelle stesse difficoltà così infilai i nastri girati in un cassetto e buona notte al porno casareccio.
Ne avrei parlato ancora un paio di anni appresso incontrando per strada Mauro il baldo regista e dopo saluti e ricordi comuni mi fece: “Ma ti ricordi Ilario? Lo sai che è successo? Una volta stavamo girando e durante la pausa pranzo lui e l’attrice si chiudono in camera con la truccatrice che diceva di essere una medium, una che parlava con gli spiriti. Dalla camera dopo un po’ chiedono aiuto: urli e strilli. Entro e Ilario era per terra svenuto.
Avevano chiamato uno spirito e questo aveva toccato Ilario che era piombato a terra. Va bè, interrotto tutto e Ilario se ne va a casa.
Da quel momento però non gli si alzava più. Soltanto con l’attrice che era quel giorno nella stanza con lui funzionava. Pensa che si sono anche sposati. Strano eh?”