Goa 15

Ben deciso vado avanti per la strada, quella autobiografica, dopo aver dato una scorsa a quanto ho pubblicato finora sul Decamerone Social.
Mi sembra di non aver mai usato la terza persona infilando aneddoti, avvenimenti e descrizioni sulle pagine del gruppo.
Quel che sembra averci raccolti qui è la medesima età quindi la similitudine di esperienze.
Delle mie mi sono ritrovato a parlarne senza remore né titubanze. Talmente spontaneo che della cronologia me ne sono proprio fregato.
Adesso voglio provare a seguire un filo storico ma non posso garantirlo.
Tutto questo comunicato a chi avrà il coraggio e la costanza di leggermi. Per gli altri, trovino loro un’ispirazione, una voglia e buttino giù qualcosa in queso Decamerone Social.
Avevo pensato di intitolare questo nuovo post Goa 12 per tappare il buco, ma scelgo di ripartire da Goa 11 considerando Goa 13 e 14 divagazioni. Tanto a Goa sono tornato fino al 2006. Ci sarà modo.
Il Goa 12 sta lì a futura memoria: quella di Claudio soprattutto che mi ha colto in fallo. Ci vorrebbe una faccina che ride ma sono allergico agli emoticon.

Quindi:
Goa 15
Dopo la “sòla” infilata nelle Espadrillas di Carmen il rapporto tra noi andò sfilacciandosi e presto mi ritrovai a
dovermi inventare qualcosa.
Il Ciai Shop era dissolto con le infiltrazioni nell’ambiente dell’uso dell’eroina. Le vetrate finto piombo non funzionavano gran chè: erano bei lavori ed era anche bello farli insieme a Baldi e qualche altro occasionale aiutante ma venderle era un affaraccio. Il senso commerciale latitava.
Il famoso angelo, come da contratto, fece capitare tramite mia sorella Franca il business delle sorprese per Uova di Pasqua e da lì come ho già raccontato ci fu il ritorno a Goa, ben cambiata rispetto a due anni prima e da affrontare con tutt’altro cipiglio.
Dunque lezioni toste di Backgammon con i due gamblers, poi con quattro soldi in tasca da investire l’incontro con la Francese e le sue gonne.
Le mie gonne; poi i miei scialletti musulmani, i miei tessuti da Sari e i miei ricami. Tutta roba che… chi l’avesse mai detto al tempo del rock e la band.
Quindi un avanti e indietro senza sosta, allietato da incontri d’ogni genere; di qualcuno ho raccontato in altre pagine del Decameronesocial. Un tempo farcito da situazioni e prospettive che si aprivano a ventaglio.
Una caratteristica mia è sempre stata quella di non voler cercare porti sicuri che mi scampino da tempeste e bonacce. Mettersi al sicuro da che? Tenere da parte per momenti meno floridi? Una casa di proprietà? Investire?
Tutta roba che non mi riguardava. Tanto entrava e tanto usci
va.
Mi viene in mente di un tizio che una sera in un bar a Roma mi confessa di essere innamorato. Una calabrese estremamente pragmatica e insicura che se ne è tornata in Calabria e che lui non riesce a levarsi dalla mente né dal cuore. Vorrebbe raggiungerla, ma…
“E una volta là, che fai?” Gli domando.
“Non lo so. Cercherei un lavoro. Una casa…”
Firmare assegni era facile e rividi il tipo, insieme alla tipa, venti anni dopo in un casuale incontro da un benzinaio sulla via Appia. Non avevano figli ma si erano sposati e facevano gli ambulanti con un loro furgone.
Pentirsi di che? Dei soldi andati? “Money comes and goes Through the holes in the pockets of my clothes”. Fratello Dylan.
Un’altra follia: aver trovato un libro portato dall’Olanda
con i testi delle canzoni di Dylan e mi misi in testa di tradurle tutte in italiano e poi venderlo. In compagnia di Giorgio, quello che doveva arrivare a Goa insieme a me e il resto della band, e con l’aiuto di un paio di americane che vivevano a Roma.
“Houdy East Orange”. Nemmeno le americane, non di New York, sapevano tradurlo.
Un mese, prima che una coincidenza mi portasse a scoprire che Houdy era una forma francesista di arrivederci e East Orange un quartiere periferico della Grande Mela.
Fottuto Dylan. Un amico però raccontò di questa impresa editoriale al fratello, rampante editore, e quello fece la sua fortuna facendolo tradurre e pubblicare in tempi brevissimi. Pensare che avevamo anche rimediato un ciclostile: una strana macchinetta fornita di manovella che moll
ando striature di inchiostro su ogni foglio ci stampava le nostre traduzioni.
Le sorprese per le Uova di Pasqua furono la sorpresa che mi rimise on the road e da lì in poi ci pensò il contratto stipulato, vedi post 1, a soffiare nelle vele.
La mia pigrizia faceva si che ogni tanto mi ritrovassi senza più soldi ma mi bastava rimettermi in moto per ritrovarmi nuovamente ad uscire da una boutique o un negozio di moda con cospicui assegni in tasca.
In quella fase fui contattato da una buyer della Coin per un grosso ordine vicino ai 200 milioni e considerando che lo stipendio medio era intorno alle 500 mila lire mensili, quei milioni erano una cifra assolutamente inaspettata e venne il momento dell’appuntamento a Mestre per firmare il contratto.
Organizzai la partenza: doppio petto di origine Usa anni quaranta, jeans e una ventiquattrore: come da cliché, ma si mise di mezzo Casanova.
Nella casa a Trastevere dove abitavo, quella di Porta Portese l’avevo prestata alla mia ex che attraversava un momento di crisi, venne a trovarmi una giovane donna che c
onoscevo appena per comprarsi un paio di foulard. Mi accompagnò poi in stazione con la sua macchina e al momento di lasciarmi si allungò sul sedile per sfiorarmi le labbra. Preso.
Salii in treno e litigai subito col controllore perché il mio Roma Mestre di prima classe non era fumatori. Cambiai di posto; aprii il giornale e pensai che a me quello che più interessava erano quelle labbra appena sfiorate.
Scesi dal treno, infilai un gettone in un telefono lì a Termini e chiamai la tizia per invitarla quella sera stessa a cena.
Casanova aveva colpito ancora. Era stato una delle mie prime letture da bambino. Precoce, a casa con i miei c’era una sorella nubile di mia madre che quando avevo quattro anni mi insegnò i rudimenti della lettura, leggevo di tutto. La televisione per fortuna non c’era e io, secondo canoni, divoravo favole, Salgari e avventure varie di alcune delle quali ho ancora memoria. Verso i dieci anni spiluccavo nella libreria di famiglia ogni cosa avesse sentore di viaggi o di storia. C’erano due libroni rilegati che sapevo essere di mio nonno e quando li aprii la prima volta mi lasciarono a bocca aperta: quasi ad ogni pagina c’erano illustrazioni in bianco e nero sfumate nel giallo del tempo, di donne nude o poco vestite in abiti del settecento.
“Memorie di Giacomo Casanova cavaliere veneziano”. Edizione a dispense della Nerbini 1903, raccolta e custodita da mio nonno. Quello pittore, quello un po’ matto a giudizio di figli e moglie. Morto qualche anno prima ma di cui io avevo ben vivo il ricordo. Come avrei potuto dimenticarlo?
Vivevamo tutti insieme in un appartamento di quattro stanze: padre, madre e la mia sorellina di due anni più piccola.
La guerra finita da due anni quando io nacqui, aveva portato sulle spalle di mio padre la famiglia della sua bellissima moglie mescolando il suo essere napoletano con i toscani dell’Elba che aveva incontrato poco prima che finisse la guerra. Si erano conosciuti a Varese dove lui era ufficiale della Polizia d’Africa e lei impiegata ministeriale che da brava fascista aveva seguito il governo a Salò. Con lei la sorella malaticcia, la mia insegnante di lettura, sua madre e il padre, già stranino all’epoca che si ostinava ad uscire di casa quando c’erano adunate di camerati col suo fioccone nero da anarchico. Un po’ la vergogna della famiglia.
Artista, pittore, affrescatore di chiese, quadri bucolici che ancora riempiono le pareti di casa delle mie sorelle e se mai abbia dipinto dei nudi a me non ne è arrivata traccia c
ausa l’atmosfera beghina di moglie e figlie.
Il nonno era capitato ad affrescare una cappella all’isola D’Elba quando la nonna aveva diciassette anni e l’aveva letteralmente rapita sposandola, diseredata nel contempo dalla famiglia benestante di lei, e portandosela in Argentina sul finire dell’ottocento.
Per chiarire più a fondo la figura del mio sacro nonno due immagini ancora vive nella mia memoria: mia madre, che veniva da studi di pedagogia, ma evidentemente quella dei primordi, un giorno quando io avevo circa tre anni mi lega a un termosifone nella sua stanza per punirmi di chissà che cosa e io vedo entrare il nonno, già arteriosclerotico conclamato, che viene a sedersi a terra accanto a me e comincia pure lui a legarsi con una corda che si è portato dietro.
Morì un anno dopo e anche la sua morte fu un’eredità rimarchevole. Ho ancora l’immagine di me che gioco con qualcosa seduto a terra sotto una finestra, mio nonno su una sedia lì accanto, mio zio, fratello di mia madre anche lui ospite a casa dopo anni di prigionia in Africa nei campi criminali fascisti inglesi, che gli sta passando il rasoio sulla barba quando nonno lo interrompe, allontana la mano poi scoppia in una risata profonda sempre più altisonante e si butta sullo schienale rovesciando la sedia. Era morto così, ridendo di chissà cosa.
Oltre a questo a me lasciò una spilla da cravatta in co
rallo con la testa di Garibaldi e qualche foto e autoritratti di cui negli anni mi appropriai. Soprattutto i due volumi del Casanova in cui mi imbattei verso i dieci anni e che mi furono subito interdetti, sequestrati, ritrovati, letti un paio di volte di nascosto, poi definitivamente scomparsi finché verso i miei quaranta li pescai dietro la Treccani a casa di mio padre. Ne ridemmo insieme mio padre ed io e adesso sono con me. sacro legato.
Aver letto Le Memorie di Giacomo Casanova, e per due volte, a quella età credo abbia condizionato il rapporto con l’altro sesso in modo rimarchevole.
Ho constatato come il mio figlio più piccolo, così come tutti quelli della sua età, abbia scoperto il sesso attraverso Internet. Ai miei tempi, facevano indossare calze nere alle Kesler in televisione, i bikini in spiaggia arrivavano alle ascelle e la stampa soltanto azzardava qualche scollatura vistosa o gambe nude. Una dittatura cattolico.
Il libro proibito che mi ero letto offriva il punto di vista di Casanova e non apriva spiragli di curiosità verso l’altra faccia della passione per le donne che avrebbe potuto darmi
un Don Giovanni. Carogna questo, quanto vittima l’altro.
Lo capii tardi quando il mio carattere era ben segnato.
Così un giorno della fine dei settanta, Casanova colpì ancora e io scambiai senza rimorsi un contratto d’affari milionario con due occhi di donna. Invero belli.

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