Goa 14
Più che i selvaggi cavalli inventati dal Boccanera, che ormai quasi ottantenne nega (garantisce che arriverà a 150 anni, il che purtroppo significa aspettarlo per controllare), fu l’India dei Beatles ad attirarci. Gli scarafaggi erano andati in India a trovare non so quale santone e i media aveva diffuso foto e video di quella gita.
Sarebbe semplice frugare internet e ricercare di quel loro momento ma è qualcosa che non amo fare. Preferisco affidarmi, fidarmi?, alla memoria.
India?
Viaggiare in quei tempi che erano un grande e denso embrione era semplice: un passaporto, anche pochi soldi e una meta. In questo modo l’India divenne un luogo da visitare così come lo erano Londra o Amsterdam.
Messo “on the road” per me arrivò la fase del viaggio con il falso passaporto del Bormioli, da usare sulla rotta Parigi Bombay e da qui mi capitò di trovarmi un pomeriggio in uno stretto corridoio di un attico parigino con le pareti colme di piccoli dipinti che a guardar le firme erano di Mirò, Picasso, Mondrian, Braque, Matisse e altri famosi del novecento e tutti originali. Non erano riproduzioni.
Il fatidico “non credo ai miei occhi” ma la perlustrazione fu interrotta dalla stessa cameriera che mi aveva accolto, per guidarmi dal “segnorino”; così disse.
Il “Segnorino” era il nipote di Pablo Picasso.
Si chiamava Jean Antoine, aveva vent’anni circa e ci eravamo conosciuti in quel di Goa qualche tempo prima.
Arrivavo proprio da Goa dopo una sosta di un paio di giorni a Bombay dove mi ero trattenuto per un lavoretto in zona Daghina Bazaar da un artigiano di cui mi fidavo.
Si possono trovare, o almeno si potevano trovare, delle scatole rettangolari e quadrate di lamierino sottile dipinte con la vivacità dei colori indiani accuratamente ricoperte di Shiva, Vishnu e altre dei Indù o scene dalla loro mitologia. Una di queste scatole, piuttosto grande, l’avevo fatta lavorare come già altre volte prima di allora creando un’intercapedine per tutta la superficie e inserendoci cinque o sei etti di ottimo olio di hashish. Tra l’altro in quell’occasione preso a credito da un canadese.
Il lavoro perfettamente rifinito e la solita via per tornare a Parigi mi garantivano la riuscita dell’operazione.
D’altro canto non era la prima volta da quando casualmente avevo scoperto che l’Aeroporto di Orly aveva uno ben strano modo di accogliere i viaggiatori dei voli provenienti dall’Oriente.
Appena fuori dalla scaletta arrivavi con un breve tratto a piedi al posto di polizia dove mostravi i documenti. Fatto questo uscivi nello stanzone che dava sull’esterno dove erano taxi e autobus in attesa. Facevi pochi metri e entravi in un altro locale dove i nastri trasportatori portavano i bagagli e preso su il tuo procedevi fino a un bancone dove avveniva il controllo; poi riuscivi da dove eri entrato.
Me lo aveva detto a Goa un francese e avevo verificato che era proprio così che avveniva per tutti i voli della Jal, Kuwait, Kuwait, Emirates e simili.
Quando uscivo dal controllo doganale avviandomi al taxi mi fermavo a recuperare il borsone mollato dentro un deposito bagagli a gettone dopo il controllo passaporti.
Funzionava ma quella volta il volo della Jal arrivato sopra Parigi prese a girare in tondo finché la radio comunicò che per uno sciopero in corso saremmo stati dirottati all’altro aeroporto parigino aperto da poco tempo: il “Charles De Gaulle”.
Visto che eravamo in Francia pensai “Oh merde!” e mi preparai a quella inattesa prova.
Scale mobili, anche qui tappeti in gomma che ti portano in ogni dove, il nastro trasportatore dove prendo su la valigia, poi il controllo passaporti. Il poliziotto non mi degna di uno sguardo: prende il mio passaporto e lo apre su uno scanner. “Au revoir.” Mi dice.
Mi rilasso e mi avvio ai taxi per fare la fila ma si avvicinano due signori con scritto in faccia “Polizia”.
“Voulez vous me monstre votre passeport?”
“Sorry, I don’t speak french.”
Allora lui parla inglese: “Come with us.”
Mi ritrovo a camminare per dei corridoi dentro l’aeroporto con uno davanti e l’altro dietro.
“Cazzo. In Francia sono sette anni.”
“Ma non hanno ancora trovato niente.” Mi dico mentre entriamo in una stanza dove c’è un grande tavolo e un tizio seduto in una poltrona, un altro in piedi che però lascia subito la stanza.
I due mi fanno spogliare fino a restare in slip e perquisiscono gli abiti. Mi rivesto e al loro cenno apro la valigia poggiata sul tavolo e loro iniziano a tirar fuori ogni cosa riempiendo il piano di incensi, album da disegno, libri, cravatte, pedalini, camicie, pantaloni, macchina e obbiettivi fotografici, rollini Kodak già impressionati, scatolette con i vari regali che portavo con me e non so che altro.
Cerco di imbastire un’ipotesi di conversazione. Chiedo loro cosa stanno cercando ma sono veri poliziotti: non mi degnano di risposta.
Aprono ovviamente la scatola incriminabile, bella, colorata e zeppa di pennarelli, matite, compassi, righelli, gomme e ammennicoli vari. Ci frugano dentro smuovendo le cose ma mentre lo fanno io mi chino con fare che potrebbe essere interpretato come furtivo su altri oggetti fuorusciti dal mio bagaglio. Mollano la scatola e vengono a vedere.
Non so per quanto va avanti la sceneggiata poi mi dicono di rimettere tutto dentro.
Comincio a farlo ma il tizio si alza dalla poltrona e dice di voler controllare lui stesso.
Ricomincia così l’esame di tutti gli oggetti stesi lì davanti.
Prende in mano anche lui i rollini fotografici e con la punta di una pinzetta cerca la pellicola e la smuove appena fuori prendendola poi con la punta delle dita per vedere se si muove e accostatola all’orecchio sentire il rumore che fa. Quando torna sulla scatola di Shiva io ripeto il giochetto della distrazione.
Sempre senza una parola con me; poche sottovoce tra loro.
“Ok. Puoi rimettere a posto e andare via.”
Uno di loro si mette a telefonare. Gli altri due parlottano.
Saluto. Mi avvio alla porta, sto per aprirla che quella mi si spalanca davanti e un tizio mai visto fino ad allora mi pianta un dito sul petto spingendomi nuovamente dentro.
“I want to check myself.” Fa’.
Io li guardo sconcertato ma il tizio che ha preso il comando fa cenno di sbrigarsi.
Che posso fare? Comincio a sentirmi piuttosto nervoso.
Il nuovo arrivato ripete le perquisizioni già fatte dagli altri; quando però arriva a prender su un rollino Kodak e ha in mano le pinzette glielo strappo. Prendo io la linguetta della pellicola e la srotolo con ampio gesto teatrale: “Ma che volete? E’ una pellicola! Che andate cercando?” E questa volta in italiano.
L’ultimo arrivato mi dice in inglese di rimettere tutto dentro e andarmene.
“No.” Faccio io ancora sull’esagitato.
“Finito. Finito. Puoi andare.” Dice lui.
Risistemo il bagaglio, arrivo alla porta poi sulla soglia mi volto e gli faccio: ”Why you did this?”
“We didn’t found it but you got the dope.”
Scuoto la testa e me ne torno ai taxi.
Particolare divertente era che in tasca mi avevano trovato il biglietto aereo Alitalia e io avevo ribadito di dovermi sbrigare perché avevo quella coincidenza per Roma senza che si accorgessero che quel volo non era intestato a Bormioli.
Poi però caddi nella paranoia che se erano così sicuri che io avessi “the dope” anche se non l’avevano trovata avrebbero allertato la dogana italiana e si sarebbe ripetuta la ricerca.
Come affrancarsi dal rischio senza buttare via tutto?
Fu allora che mi venne in mente Picassò, con ovvio accento finale, e gli telefonai prospettandogli l’affare. Prezzo di realizzo e il ragazzo fu ben d’accordo.
Con mille e cinquecento dollari in tasca, mille avrei dovuto riportarli a Goa, mi imbarcai per Roma dopo aver depositato il passaporto Bormioli a casa dei soliti amici e riflettendo che si era trattato di una stupida reazione paranoica. Viaggiavo con nomi diversi: perché avrebbero dovuto fermarmi?
A Roma Fiumicino ci fu soltanto una scambio di saluti mentre io pensavo che chissà se ne avrei scritto un giorno di quanto avvenuto.
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Questa è stata una professione in cui ci siamo cimentati quasi tutti
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Dieci anni fa forse prima ti dissi di scrivere le tue avventure. Sai che ti voglio un bene dell’anima.Il tuo amico eddiCapitani coraggiosi! Anche Baba Cesare era un campione di imboschi nelle tavolette dipinte con degli Shiva. Fra l’altro li dipingeva lui stesso con grande maestria! Come questo che mi ha regalato!
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La vertigine, il rischio, pane quotidiano
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fantastico! fate questo libro! peccato non sono li per Darvish una mano. e’ davvero importante in questo stranissimo periodo storico che stiamo vivendo dove tutto e’ virtuale ed I conttatti umani e le avventure della nostra generazione sono davvero una ispirazione per chi e’ alla ricerca di una realta’ che non sia virtual! ilmio libro uscito in inglese ha transformato la vita a molte persone. DO IT PLEASE!
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Non ho la certezza ma i Beatles andarono in India x incontrare Ravi Shankar. Grande maestro con il suo sitar. Difatti in alcuni brani dei Beatles nel sottofondo si sente la melodia.
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Ravi Shankar tenne una sua esibizione al teatro Sistina. Lo si può vedere anche in un film CHAPAQUA del 1966 ne consiglio la visione. Un viaggio filmico attraverso le droghe . Autobiografico regia Conrad Roocks.
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george harrison WONDER WALL merita l’audizione. Studiò il sitar presso Shankar
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