Goa 1
Ieri Giulia si è presentata portando in dono un ricco mazzo di Cavolo Nero quindi oggi pulizia del cavolo in attesa di affogarlo domani con i cannellini per una sana zuppa.
Uno dei lavori che più ti lasciano spaziare con la mente e così, avevo ancora dentro i commenti agli ultimi post sul Decameronesocial, ho pensato al tempo trascorso a Goa e mi sono ripromesso di andarci su.
A chi tocca ’nse ’ngrugna, dicono a Roma e poi nessuno vi obbliga a leggere.
A Goa arrivai quando ancora pochi l’avevano visitata ma se ne cominciava a parlare. Figurarsi che l’input arrivò dalle chiacchiere del Boccaccia che non l’aveva ancora vista, ma questo non ce lo disse, però durante una visita a casa nostra in quel di Santa Marinella si lanciò in una descrizione di questa Goa e delle sue spiagge bianche sull’oceano indiano e cavalli selvaggi liberi al galoppo tra le palme.
Di quei tempi vivevo insieme ai miei amici in una villa sul mare vicino Civitavecchia che era meta costante di romani liberi da impegni. Tempo delle comuni e questa accolita di capelloni che facevano musica attirava amici e amici di amici.
Piacevole per noi e anche per chi veniva a trovarci dato lo spirito di libertà che si respirava e assorbivi appena arrivato.
Santa Marinella, un paesotto piccolo borghese che perdeva ogni identità nella stagione invernale. Nessun motivo per identificarsi col posto ma lo starne un po’ discosti e il nostro aspetto, il capellone era ancora una bestia tutta da decifrare, destava la curiosità discreta dei locali.
Ci fu la volta in cui superarono la descrizione e ad uno dei saltuari incontri al bar ci chiesero se avessimo voluto fare una partitella di calcio con loro.
Ci vedevano passare pomeriggi interi a giocare tra di noi nel giardino di casa.
Venne il giorno fatidico della partita e ancora ricordo qualcuno che viene a chiamarmi mentre me ne sto appassionatamente chiuso dentro la canadese insieme alla fidanzata del tempo. Via di corsa e scendiamo in campo.
Prima sorpresa, allo stadio c’è mezzo paese pronto a farsi due risate alle spalle di quei capelloni poco atletici che avrebbero affrontato la squadra locale che d’altro canto era in periodo di pre camionato iscritta alla serie D se non C.
Oh bè! Ormai c’eravamo e vestiti in maniera che per carità si potrebbe definire pittoresca ci buttammo a giocare.
C’era Cecco, ex primavera della Roma che però aveva incontrato presto canne e serate al Piper Club e quindi dalla Roma era stato cacciato; il Farina che tutto quel che sapeva del pallone era soltanto che fosse rotondo; Walter, Nebiolo, Marcellino, il sottoscritto, Vico e altri aspiranti musicisti che bene che andava avevano tirato calci sotto casa o da ragazzini in qualche periferia romana.
Come da copione alla fine del primo tempo perdevamo due a zero. Ed era già un successo.
Secondo tempo e con l’ausilio di una dozzina di pasticche di Metredina ci trasformammo. Giuliano, americano trapiantato in Italia, divenne l’incubo inspiegabile del numero nove avversario che ricevuta palla dribblalava quello stopper biondo e spilungone e se lo ritrovava di nuovo davanti in un frangente. Personalmente ero diventato un terzino che reggeva la velocità dell’ala che mi era toccata.
Colonna indimenticabile Michele nella veste di massaggiatore che vagava lungo i bordi del campo munito di un secchio e appena vedeva uno di noi affranto a recuperare un po’ di fiato si appressava e ti tirava delle gran secchiate d’acqua fredda.
Due a due e tutta la sorpresa e la stima degli indigeni che da quel giorno incrociandoci in paese salutavano e sorridevano.
In quei nostri momenti sereni con le mattine dedicate a provare pezzi degli Spirit o dei Rolling, capitò Boccanera con le sue immagini mitiche delle spiagge indiane.
Ci fu poi il momento di debuttare in pubblico con la band e il luogo non poteva essere altro che il Piper e nonostante il primo pezzo partisse con un assolo di chitarra e Nero, il solista da Napoli, si fosse dimenticato di accendere l’amplificatore, sul palco a switciare l’interruttore guardandolo con odio saltai io, il breve concerto ebbe un gran successo: eravamo piaciuti. Così toccò a me, il manager, conversare con una specie di bancario sessantenne che volle farmi i complimenti, poi si presentò come un maestro della Ricordi e ci manifestò l’intenzione di farci un contratto. Avremmo trascorso l’estate in tournèe con una certa Mimì Bertè suonando pezzi della Ricordi per poi a fine stagione metterci sotto per registrare un disco nostro. Ringraziai, promisi di fargli sapere e relazionai la comitiva impegnata a ricaricare il furgone.
La mattina seguente ci ritrovammo col caffè in mano insieme col Nebiolo e Giorgio sulle scale fuori casa e io venni fuori col desiderio che aveva strisciato dentro per giorni di andarmene a vedere questa Goa. “Di lavorare con la Ricordi non me ne frega niente.”
Gli altri due ci misero un istante a sottoscrivere l’idea e così fecero gli altri via via che scendevano per la colazione.
Bello avere vent’anni.
“E allora partiamo con gli strumenti e andiamo a suonare a Goa.”
Senza mai richiamare il tipo della Ricordi ci mettemmo a racimolare soldi e organizzare questo viaggetto verso l’ignoto attrezzando il Ford Transit con un materassone che fungesse da sedile posteriore e gomme nuove, dicasi fornitura sfasciacarrozze, per la Due Cavalli di Paolo. Eravamo diventati sette e tanti ci mettemmo sulla strada.
Jugoslavia, Grecia, Turchia, Iran. Era lunga la strada verso l’est lontano considerando che spesso trovavamo strade non asfaltate e ci accompagnava costante il caldo dell’estate.
Glissando i meravigliosi panorami che andavamo scoprendo e gli incontri con sorprendenti tipi umani ben lontani dal genere cui eravamo abituati, in un mese e mezzo fummo al confine indiano. Nel frattempo la mitica Citroen era defunta e restata in quel di Kabul parcheggiata al Kyber Restaurant e noi, inzeppati nel furgone insieme a zaini, sacchi a pelo, amplificatori e strumenti musicali, ci trovammo a dover decidere cosa fare a quel punto.
Farina e il Nebiolo scoprirono di essere innamorati e desiderosi solo di tornare a prendere le vezzose. Walter e Nero ce li eravamo persi lungo la strafa per incompatibilità e così restati in cinque sul Transit fino al confine. L’India finalmente.
Avevamo viaggiato per circa due mesi andando avanti a Nan, quella specie di piadina dalla Turchia a lì, kebab, riso Pulao, pomodori, uva e cocomeri. Immaginarsi quando facendo una sosta ad Amiritsar, la prima città indiana, nella piazza scoprimmo una bancarella con relativi pentoloni ripieni di polpette al sugo. “A me 4. “Per me sei.”
Il primo che si avventò sulla prima polpetta fece un’espressione indimenticabile: non erano affogate in salsa di pomodoro ma peperoncino.
Benvenuti in India. La prima cosa da accettare era la cucina indiana.
I due proseguirono per Katmandù perr andare a vendere il furgone e poi volare in Italia e Giuliano, Marcellino e me ci arrampicammo su un treno diretto a Goa dopo aver spedito bagagli e amplificatori via ferrovia.
Le splendide ferrovie indiane ereditate dagli inglesi e all’epoca ancora rimaste ai tempi dell’impero.
Data la scarsa pecunia, De Lux, Prima, Seconda o Terza classe? Ovviamente terza, altra scoperta che significava un cassone in legno con una panca che correva lungo tutta la parete e un continuum di finestrini muniti di fitte sbarre orizzontali.
Scoprimmo dopo che servivano a dirigere l’assalto ad ogni fermata verso le due porte. Assalto ridicolo perché lì dentro non c’entrava più uno spillo zeppo come era il vagone e tutto il treno. Ma gli indianini ci provavano ugualmente.
Io ero finito tenuto diritto dalla pressione dei corpi all’intorno tenendo stretto al petto il fucile da sub del Nebiolo e una Martin classica troppo preziosa per affidarla ai trasporti ferroviari.
Qui approdammo a un’ulteriore scoperta: un vecchio signore indiano che ogni ora faceva cenno a qualcuno dei fortunati seduti sulle panche di alzarsi e lasciar sedere qualcuno di quelli in piedi. Fummo trattati con la democrazia dovuta e anche noi avemmo a turno un’ora di riposo.
Venditori di banane che spostandosi aggrappati ai finestrini apparivano per vendere la loro merce e scimmie che sempre di finestrino in finestrino arrivavano ad allungando le zampe
per arraffare quel che potevano.
Due giorni deliziosi poi finalmente Goa. Il treno ci scaricò a Vaso De Gama, una città piena di edifici e traffico.
Qualcosa non tornava. “Ok. Facciamoci portare da un taxi. Portaci a Goa.”
“You are in Goa.”
“No. Goa: the beach with sand and palm trees”.
“Ok” e il figlio di mamma indiana guidò per una buona mezzora fino a scaricarci in un paradiso terrestre dove a parte la sabbia e le palme non c’era altro. Che Goa fosse una regione e non un paese o una spiaggia nessuno di noi lo sapeva.
Un po’ di pudore lo aveva quel tanto figlio per cui dopo avergli detto di riportarci dove ci aveva presi guidò fino a Panaji e passato il fiume ci scaricò a Calangute.
La Calangute di allora, sola meta dei rari hippies, consisteva in una strada sterrata che dalla via principale che collegava i paesi più importanti limitrofi, andava a morire su una delle fatidiche bianche spiagge, invasa questa da barche in secca.
Lì dove terminava c’era un albergo a due piani con una grossa insegna che chiariva trattarsi del “Governative Turistic Hotel”. Era anche ristorante così ci infilammo lì dentro stanchi come eravamo.
Praticamente vuoto e anche in giro non avevamo visto gran che gente, eravamo d’altro canto alla fine della stagione dei monsoni; ci sedemmo affamati e piuttosto perplessi quando al nostro tavolo venne a sedersi l’unico bianco apparso.
“Where you from?”, e si aprì una conversazione che ci illuminò un minimo su dove fossimo finiti. Ci consigliò la pensione, la sola, che stava dall’altra parte della strada e poi partì con un panegirico sulla musica operistica italiana.
“Do you like Rosini?” chiese proprio a me che ero distrutto e con i testicoli stragonfi.
“No. I don’t like Rossini.” Risposi continuando a mangiare. Non so chi fu tra Giuliano e Marcello a indicarmelo con un cenno e io mi voltai per vederlo chino sul tavolo e piangente.
“Hey man… what’s wrong with you?”
“You don’t like Rosini… you don’t like…”
Il primo flippato di Goa e quello fu l’inizio.
Mi piace: 30Claudio Bucci, Veronica Cino e altri 28
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Nei treni indiani in terza classe , anche io la prima volta, mi è preso un colpo ma ho resistito
Sei andato in India quando morivo dalla voglia di andarci e non ci riuscii, invece il “karma” mi mandò, prima in Costarica e poi in Messico, dove sono rimasta. Ho dovuto aspettare quarant’anni per arrivare in India, ed ora, covid a parte, ci vado regolarmente, zoppicando e col bastone.
Siii! Ancora! Bello sentire la storia dei viaggi in India dai primordi! Dopo qualche anno avrei seguito anch’io quei sentieri mitici su cui avevate fatto da apripista!
nooo! hai dato buca alla Ricordi e a cantare con la Bertè per finire in quel cesso di posto? sai che detesto l’India vero
, ma il tuo racconto del viaggio in treno potrebbe ambientarsi ad oggi non è cambiato nulla! solo la possibilità di arrivarci in macchina attraverso paesi ormai vietati
Continua please!
Che bel racconto
. Mi ha fatto piacere sentire di vecchi amici Romani di una volta… Giuliano lo conobbi bene, andavo a trovarlo a casa della madre Americana in Via Giulia, e poi il Farina, che dopo lunghe nottate al Piper, a volte mi accompagnava a Viale Marconi col suo vespone… Tutt’e due persi di vista con la mia partenza per gli USA. Santa Marinella poi, me la ricordo perché andavo a trovare Anna e Sandra che avevano li una casa estiva, facendo l’autostop da Roma. Proprio a Santa Marinella, per la prima volta in vita mia vidi il mare fluorescente, che s’illumiunava con il movimento delle onde, molto magico! Grazie per i ricordi.
il Farina vive a Frisco da 30 anni, un po’ come te
, peccato che non lo sapevo, mi avrebbe fatto veramente piacere rivederlo, vivevamo a due passi l’uno dall’altro. Ormai vivo in Florida da 4 anni e la California me la sogno…
, hai modo di contattarlo? Se hai un email, lo gradirei.
california dreamin’ mi suona familiare
Vado a letto contento
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