Kathmandu, dicembre 1975

Fernando Fera

14 maggio 2020

 

Innanzitutto un saluto a tutti i partecipanti al gruppo, con un racconto che spero faccia piacere leggere.

Kathmandu, dicembre 1975

Peter insegnava matematica a Bangkok e con mandolino e chitarra ci sapeva davvero fare. Cantava anche piuttosto bene, con voce da baritono e soprattutto con quella pronuncia americana che rendeva tutto verosimile quando intonava brani come Act Naturally, Fishin’ Blues o Green Grass of Home, alla quale, per altro, cambiava l’ultimo verso del ritornello sostituendo a “to touch” il verbo “to smoke”. C’eravamo incontrati in Durbar square e avevamo fatto amicizia alla svelta, anche perché io non passavo inosservato con la mia grossa Eko Ranger acustica e lui si portava sempre dietro il suo mandolino a cassa piatta che lo rendeva istantaneamente individuabile. Erano già trascorsi un paio di mesi dall’inizio del viaggio in oriente che avevo intrapreso con la mia fidanzata e, arrivati a Kathmandu, io ero in fase di radicale auto ridimensionamento. Sbarcati a metà novembre a Delhi, avevamo fatto comunella con una coppia di super freak che, tanto per presentarsi per bene, ci avevano ripulito di macchinetta fotografica e di un paio di jeans Levi’s nuovi di pacca, episodio che mi aveva fatto prendere le misure sui rapporti di forza reali fra me e la beautiful e scafatissima people on the road e, più che altro, mi aveva fatto definitivamente abbandonare l’idea che avrei potuto incantare chiunque con la mia chitarra. Quindi, fuggiti da Delhi e preso contatto con un altro po’ di India vera grazie una sosta di un paio di settimane a Varanasi, Elena ed io eravamo finalmente sbarcati a Shangrilla dove banalmente, avevamo trovato alloggio in un simpatico hotel a un terzo di stella situato in Freak Street. Finalmente, insomma, le nostre giornate scorrevano ora liete tra grass nepalese e bluegrass americano, genere al quale il nostro nuovo amico Peter mi aveva sapientemente introdotto. Un bel giorno mi propone di andarcene insieme a fare una jam in una casa a Swayambhu, località dominata da uno dei templi più importanti del Nepal. Anche la nostra, in un certo senso, sarebbe stata una bella celebrazione, con musicisti di un po’ tutti i continenti e soprattutto arricchita dalla presenza di tale e non meglio identificato Tom, che, a dire di Peter era un chitarrista speciale. Così, il pomeriggio successivo, ci troviamo in questa grande e bella casa, ospiti di un ragazzone statunitense insegnante di pedagogia. Casa bella, buoni dolcetti anti munchies di origine fumogena, tanti ambienti decorati all’ultima moda freak. Tutto ad un tratto vengo attirato da un sound irresistibile proveniente da una stanza attigua e che mi sembrava fosse il risultato dell’insieme di un paio di musicisti affiatati. Mi affaccio nella stanza dalla quale proveniva quel suono e, sorpresa da prolasso mascellare, i chitarristi non erano due bensì uno solo! Insomma, eccolo lì il famoso Tom: un poco più che ventenne con capelli radi, baffi ed una faccia che sembrava uscita da uno di quei dagherrotipi dell’epoca di Pat Garrett e Billy the Kid. Era lui la fonte di quel suono che secondo dopo secondo non sembrava più di una chitarra, bensì l’eco di un treno in corsa, uno di quei vecchi treni sferraglianti che attraversano le praterie dell’immaginario collettivo. Cerco di riprendere il controllo dei miei sensi e comincio ad osservare attentamente le mani: la sinistra si muoveva pochissimo sulla tastiera, o per lo meno così sembrava, a dispetto del flusso di note musicali che arrivava a ritmo costante. La destra era un vero spettacolo: pollice ed indice, inguainati in due fingerpicks di metallo, si muovevano indipendentemente uno portando un basso ostinato e l’altro marcando melodie ed accordi con un timbro metallico dannatamente incisivo. Ma quello che mi impressionava più di tutto era il suo sguardo, fisso, assolutamente distolto dallo strumento, come se i suoi occhi, invece di cercare punti di riferimento sulla tastiera, stessero visualizzando nell’aria il percorso musicale da indicare alle dita. Finito di suonare questo primo brano, mi avvicino e mi presento balbettando qualcosa in perfetto pidgin English e lui si dimostra subito come un tipo che più modesto ed alla mano non si sarebbe potuto immaginare. Mi ringrazia, mi dice che Peter gli aveva parlato di me come “the guy who could play the Hesitation Blues”. Io mi schermisco come un babbeo. Gli chiedo come si chiamasse il genere di musica che stava suonando e lui mi rispose semplicemente “Ragtime”. Per me il ragtime erano quei magnifici brani per pianoforte che costituivano la colonna sonora de La Stangata e tutto mi sarei aspettato tranne che potessero essere suonati con la chitarra acustica. Così, dopo un paio di altri numeri, Tom posa la chitarra e prende l’armonica che, guarda un po’, suonava anch’essa da pazzi tirandone fuori vere e proprie cannonate. Gli domando se fosse un professionista, mi risponde che no, che ce ne erano tanti anche migliori di lui e che solo qualche volta lo avevano chiamato a registrare in studio con l’armonica. Lo inondo di complimenti e lui per tutta risposta mi mette a parte del suo rammarico di essersi troppo specializzato in un unico genere.

Sono passati 45 anni, ma il ricordo di quel pomeriggio resta vivido ancora oggi come quello che ne avevo il giorno immediatamente successivo. Per tutto questo tempo ho cercato di coltivare i semi che mi sono portato da quell’incontro.

 

Mi piace: 19Tu, Paola Ant, Franca Cino e altri 16

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