Eredità di famiglia
Tra quanti fanno parte del decameronesocial, autori o lettori che siano, parecchi sono intorno ai settant’anni e come me venuti al mondo a seconda guerra mondiale appena finita si portano dentro ricordi che le generazioni seguenti non hanno.
Io non ho visto le bombe su San Lorenzo ma a casa ne sentivo parlare come di qualcosa appena accaduto. Erano ricordi freschi ancora ricchi di immagini quelli di cui parlavano a casa.
Usciti completamente povero, come del resto un po’ tutti gli Italiani, sia che fossero stati fascisti o sperassero in Baffone, se la dovevano barcamenare in un paese dove mancava un po’ tutto.
A me la fame non l’hanno mai fatta fare; seppi più avanti che a me toccavano le patate e loro, ben lavate le bucce, facevano zuppa con quelle e non so quali altre erbe.
Ecco quindi che anche per quelle bucce un omaggio alla loro memoria devo tributarlo.
Abbastanza scombinato il ceppo materno che veniva per parte di nonna Alaide da una stirpe Elbana piuttosto ricca, credo di aver sentito fossero conti, Mellini il cognome, e da quella parte l’aneddotica familiare mi ha lasciato in eredità il piazzale antistante il forte di Porto Longone perso a carte dal mio bisnonno, così come altri pezzi di terra di cui si ignorava l’esistenza che quando io ero bambino sentivo parlare di riscatti inattesi da poche lire. A me sono pur sempre arrivati un ettaro a Capoliveri e una quarantina di ettari antistanti il promontorio di Lacona, sempre all’Elba, da dividere con una trentina di altri eredi e soprattutto col Ministero dei Beni Culturali che di quello ha fatto intoccabile patrimonio nazionale insieme alle due chiesette antidiliviane e il fortino Napoleonico. Una proprietà esentasse ma recintata e inviolabile.
La contessina Alaide aveva avuto la brillante idea all’età di sedici anni di innamorarsi di un pittore tiburtino giunto all’Elba per affrescare una chiesa e con lui era fuggita prima a Tivoli e di lì a Buenos Aires inseguendo chissà che sogno. Risultato: diseredata dal padre conte e donna delle pulizie in Argentina mentre il baldo pittore se ne tornava a cercare i soldi per il viaggio di ritorno in Italia. Da considerare che due figli erano già nati e un terzo era in arrivo.
Quadro di famiglia il suo imbarco verso l’Italia con due bambini piccoli, il pancione e un pappagallo.
Si sistemarono a Tivoli dove nonno continuava ad affrescar chiese e monasteri e dove Alaide, raccontavano i figli, castrava polli e ci sputava sopra per disinfettarli.
Probabile che con l’artista che l’aveva strappata all’agiatezza ce l’avesse un pochino, tanto più che aveva da subito aderito al Partito Nazionale Fascista mentre il marito si ostinava ad indossare il fiocco nero degli Anarchici ogni volta ci fosse una ricorrenza o festa delle camice nere.
I due figli maschi, uno ben convinto l’altro per convenienza, da camerati con tessera salvavano il padre da olio di ricino e carcere rinchiudendolo a casa in quei giorni per loro festosi.
Mia madre pensò bene di nascere nel “21 e farsi l’infanzia e tutta la vita da Giovane Italiana tra adunate marce e discorsi del Duce.
Così quando se ne andata a 97 anni ancora le mie sorelle le confiscavano la scheda elettorale “Non è arrivata, mamma!” per evitare un voto più che destrorso.
Ma era un’ottima cattolica: messa, preghiere, durante la guerra aveva pure battezzato un “negro”, e come insegnante elementare bisogna ammettere aveva una sua etica anche perché insegnare a leggere e scrivere nelle classi differenziali a Pietralata anni 60 non deve essere stato facile.
Aveva incontrato mio padre a Busto Arsizio dove lei da buona camerata si era trasferita con a carico madre, padre e sorella maggiore malata, da impiegata del Ministero dell’Aeronautica seguendo la RSI. Lui, mio padre, tutt’altra origine: napoletano figlio di un operaio che andava elettrificando le campagne del Molise e con in tasca la tessera del Partito Comunista sposato con una casertana e zoppo per un incidente sul lavoro. Lo avevano mandato all’accademia militare e col grado di capitano era finito a comandare un distaccamento in Libia ma tornò un giorno da non so dove per vedere due libici appesi a un palo sotto al sole. Pare sia stato un tutt’uno far scendere i libici, appendere al loro posto chi ce li aveva messi e venir trasferito per punizione in Italia, a Busto Arsizio.
Meglio la Libia perché conobbe mia madre e si innamorò per tutta la vita. Devo ammettere riguardando le foto che era veramente una bella giovane poco sopra i vent’anni e pare che questo l’aiutasse non poco quando i Partigiani presero Busto e lei lasciò la caserma dove lavorava infilando sotto la gonna i fascicolo con i nominativi di quanti lavoravano per il fascio.
Mio padre come comandante fu messo al muro ma il capo della brigata lo riconobbe come quell’ufficiale della Pai che poco tempo prima durante una retata di sovversivi l’aveva fatto scappare.
Ora erano in quattro a tenersi abbastanza nascosti e far la fame.
Sentii raccontare della lettera che mio padre scrisse a sua madre e la risposta che diceva “dove si mangio in otto si può mangiare anche in dodici”.
Tutte cose che io carpivo giocando sul pavimento o al tavolo con tappi o soldatini. Mi inserivo talvolta alla ricerca di spiegazioni e particolari ma per lo più venivo ignorato.
Mi è rimasto il ricordo di mia madre che raccontava a zia e nonna di certi fascisti catturati, uccisi e lasciati come monito appesi a dei lampioni e a cui avevano strappato gli occhi per sostituirli con bzz…bzz.
Sottovoce. Ma mi aveva incuriosito troppo. La seguii in cucina e la tormentai finché mi spiegò che bzz erano i testicoli che gli avevano tagliati.
Non sempre così cruente le chiacchiere delle donne di casa ma io ero un vero uomo circondato da quella torva di nostalgici a cui solo mio padre quello che manteneva tutti non si unica.
Tutto si era arricchito dei due fratelli di mia madre rientrati da cinque anni di prigionia nei Campi Criminali Fascisti in Kenia.
Si arrangiavano a decorare vetrine, il più grande aveva la vena artistica del padre e infatti divenne un importante disegnatore per l’Istituto di Belle Arti, l’altro, camerata convinto entrò al Ministero del Tesoro e mentre passava da una fidanzata all’altra finì per avere un rilevante incarico.
La mia infanzia era fatta di questa gente, dei loro discorsi, i ricordi che li accomunavano, l’ambiente povero ma di tradizione borghese dove abitavo e crescevo. Stavamo in nove occupando tre stanze al terzo piano del palazzo dei tedeschi a San Giovanni, perché lì erano stati gli uffici e le carceri delle SS a Roma soltanto pochi anni prima.
Al di là della strada l’Istituto di Suore davanti casa dove finii per fare Asilo ed Elementari. Un frate francescano divenuto amico di famiglia che mi portava a servir messa fin dentro le Catacombe con mia bella paura. Una madre a suo modo intelligente, si vantava di non so che diploma in Puericultuta dopo le magistrali, che lo dissuase dal ripetere l’esperienza.
Come una furia la vidi uscire di casa e infilarsi dentro la mia scuola e il Monastero delle Monache. Ero stato sorpreso a tenere abbracciata una compagna di classe, non c’erano abbastanza posti per sedersi e guardare il film, e così le monache mi avevano sospeso perché Gesù Bambino non voleva si facessero quelle cose. Mia madre se le mangiò.
Ottima pedagoga ma da dove venisse un pomeriggio la scelta di punirmi tenendomi legato al termosifone della camera da letto non si capirà mai. Chissà cosa avevo combinato.
Avrò avuto tre anni ma ricordo ancora mio nonno il pittore, già tacciato di arteriosclerosi, che entra nella stanza con una corda in mano, si siede accanto a me e comincia a legarsi anche lui al termosifone. Mia madre che irrompe: “Ma papà che fai?”
“Mi lego anche io. Non lo lascio solo.”
E altro ricordo vivido di nonno Amedeo è una mattina con il figlio che gli faceva la barba, io che giocavo seduto sul pavimento distolto dalla voce di nonno che intima al figlio di fermare il rasoio poi esplode, letteralmente, in una risata fragorosa, rovescia la sedia all’indietro, cade e poi mi dicono che è morto.
Una lunga serie di ricordi che ho come debiti con quanti mi hanno cresciuto rispettandomi e soprattutto amandomi.
Erano trascorsi due anni appena dalla fine della guerra, possibile che chiudendo gli occhi potessero ancora sentire il suono delle bombe, le immagini dei morti non cinematografici ma reali, le poche cose da dividersi e mangiare, poi era arrivato quel cosetto con gli occhi chiari.
Un ricordo devo a mio padre, vissuto e morto con tutta la mia stima a differenza di quella giovane italiana di mia madre per la quale è sempre stato vivo l’amore ma la stima sono dovuto andare a cercarla e tirarla su con esca e lanternino.
Di mio padre ho accennato che fosse ufficiale di accademia. Alla fine della guerra furono tutti reintegrati ma da soldati semplici.
Salivano automaticamente di grado e io non mi resi conto al momento di cosa significasse che mio padre era diventato Maresciallo Maggiore e fosse destinato a dirigere il Centro Psicotecnico.
Molti anni dopo ero a Goa e mi raggiunse una sua lettera in cui per la prima volta accennava qualcosa di sé e chiedeva scusa a me e le mie sorelle per non averci offerto una vita più agiata per avere un giorno peccato di orgoglio.
Capii che si riferiva al suo rifiuto dei gradi che sentiva fossero suoi comunque e non una ovvia e tacita elargizione. Non a caso al suo funerale era affollato di alti ufficiali che nei suoi confronti avevano sempre portato un senso di rispetto e quasi inferiorità.
Suo padre, l’operaio comunista, era capace di levarsi 5000 lire dalla pensione e mandarmi un vaglia mentre ero in caserma per il servizio di leva.
Direi che anche come eredità mi è andata bene e queste righe erano dovute.
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8 risposte
che bei ricordi, che bella famiglia e tu quel cosino con gli occhi chiari. Tuo padre mi piaceva molto, Angelo e napoletano come il mio. Le storie di famiglia sono le piu’ belle, ricordarsele!!!!
Bella questa storia di una famiglia in un Italia ormai scomparsa. La lettura è sempre piacevole.
Belli questi ricordi Pino. L’Italia del dopo guerra visti con gli occhi di un bambino. Mi fa pensare a La storia di Elsa Morante. Devo ammettere che hai una memoria prodigiosa, io non ne sarei capace. Ma non è detto che non ci provi. Dopo tutto di ogni avventura esiste il “prequel”.
ti fa fatica mettere il nome?
bello Pino. Interessante anche la descrizione storica dell’Italia dell’immediato dopo guerra che abbiamo conosciuto da bambini. Hai cosi’ aperto un’altra finestra sulle possibilità’ del Decamerone. Chissa’ ci proverò’ anch’io a raccontare il mio dopo guerra.
aspettiamo. ma nel frattempo vorrei capire perché i commenti appaiono qui e non alla fine dell’articolo.
Interessante ritornare indietro nel tempo, si scoprono e si ricordano fatti
ma li si guarda con nuovi occhi e gli si danno nuovi significati, ampliandoli…
Bravo!
Quanti “compromessi storici” in nome dell’amore!