da Roma a Katmandu 6 (fine)

Il treno per Darjeeling partiva di sera – cuccetta di seconda classe – dalla stazione di Seldha (Calcutta). Il mattino seguente, dopo aver visto il sole sorgere sul delta del Gange si sbarcava a New Jalpaiguri. Da qui, una locomotiva a vapore (“Toy Train”), con poche cigolanti carrozze di colore blu – inaugurate dalla regina Vittoria – percorreva sbuffando gli 80 km della Darjeeling Himalayan Railway a passo di lumaca. Ma il viaggio valeva davvero la pena. Panorama a parte – parliamo di una delle linee ferroviarie più spettacolari del mondo – a colpirmi erano soprattutto i personaggi che popolavano il vagone. Nei tratti più ripidi il treno andava a passo d’uomo così gli abitanti dei villaggi circostanti potevano salire al volo e sedersi come niente fosse accanto a te con i loro costumi tradizionali a volte compresivi di scudo, zagaglia e curiosi copricapi fatti di erbe intrecciate e piume d’uccello multicolori. Non di rado questi intrepidi viaggiatori trascinavano nella carrozza anche i loro animali – maiali, capre, galline, scimmiette, pappagalli, iguana taglia XL – da vendere al mercato del paese successivo. Così in quel vagone – come nella Taverna di Mos Eisley in “Guerre Stellari” – si trovavano  a convivere  per un tratto creature arrivate da mondi lontanissimi. Il missionario con la sua Bibbia, il ricco commerciate musulmano, lo sciamano della vicina tribù, l’aristocratica turista inglese, il monaco tibetano, coppie di hippies, la famigliola indiana carica di figli, studentesse con la divisa del college, il cacciatore sbucato dalla foresta con arco e frecce. Il teatrino che ne scaturiva era quanto di più divertente e surreale si possa immaginare.

Darjeeling è una famosa località di vacanza, la Cortina d’Ampezzo degli indiani più benestanti. A partire dall’Ottocento gli inglesi avevano disboscato a tutto spiano la fitta foresta e dato il via alle prime piantagioni di tè che ormai ricoprivano senza soluzione di continuità ogni lembo di terra coltivabile a ridosso delle montagne circostanti. Il gompa (monastero) dove viveva e insegnava Kalu Rimpoche si trovava a Sonada, un villaggio di poche anime, in prevalenza contadini, a una decina di chilometri dalla città. Il Rimpoche all’epoca aveva solo 65 anni, anche se a me sembrava già decrepito: il volto radioso, dai marcati tratti mongolici segnato da rughe profonde e da uno sguardo amorevole, colmo di infinita dolcezza. Al mio arrivo, seguendo la tradizione avevo preso rifugio nei tre gioielli: il Buddha, il Dharma e il Sangha. L’anziano lama, appartenente al lignaggio kadjupa, lo stesso di Marpa e di Milarepa aveva indosso i paramenti delle grandi occasioni e io lo ricordo ancora così, con in testa l’imponente copricapo da cerimonia mentre tra fumi d’incenso, il “damaru” (il tamburello rituale) pronuncia come fosse un mantra il mio nuovo nome tibetano.
Attorno al monastero si era stabilita una piccola comunità di ragazzi e ragazze occidentali, in tutto una dozzina, io ero l’unico italiano. La mia casupola in realtà consisteva in unico ambiente; c’era un tavolo, una sedia, un letto e un piccolo fornello da caldarrostaio che fungeva da cucina e da riscaldamento. Tutto qui. Un arredamento decisamente “basic”, ma la stanza in compenso era luminosissima. Due finestre erano rivolte a Sud, verso l’imbocco della valle, l’altra sulla catena dell’Himalaya dominata dal maestoso Kanchenjunga. Avevo organizzato la mia giornata con disciplina monastica: sveglia all’alba, prima colazione, abluzioni e toilette personale nel ruscello dietro casa. Le ore restanti erano dedicate allo studio del tibetano, alle complesse pratiche del buddismo Vajrayana e alla meditazione.
Il pomeriggio, dopo pranzo, salivo al Gompa per seguire gli insegnamenti del Maestro. Un giovane discepolo canadese di nome John, che parlava perfettamente il tibetano, si occupava della traduzione. Detta così può sembrare una vita di sacrificio. Già, chi te lo ha fatto fare? Mi pare già di sentire i commenti. In realtà la meditazione insegna a smantellare le nostre difese e a guardarci dentro e ad accettare anche quello che di noi non ci piace con tenerezza e compassione. Aiuta a superare i limiti di una visione dualistica e a sviluppare una mente più flessibile – in altre parole a essere meno bacchettoni con se stessi e con gli altri – e perfino il senso dello humour. La pratica, con il tempo ci fa realizzare che le nostre paure, le resistenze, la rabbia, le questioni irrisolte non sono poi così gravi e neanche così solide come sembravano prima.

Quattro mesi erano passati in un soffio. A dicembre era cominciato il freddo. Quello vero. Attraverso le assi delle pareti entrava un vento gelido che spazzava i fogli dal tavolo e spegneva le candele. Di notte dormivo nel sacco a pelo con le calze e il berretto di lana avvolto in molteplici strati di coperte. E anche così, al risveglio avevo i ghiaccioli sotto il naso. Mi era venuta voglia di caldo, di sole, di mare. Sapevo che i miei amici erano a Goa. Decisi che li avrei raggiunti per Natale. Kalu Rimpoche definiva tutto questo “nostalgia del samsara”. A Goa avevo incontrato alcuni amici di Roma, ripreso le vecchie abitudini, anche le meno sane e piano piano la precedente versione di me stesso aveva cominciato a riacquistare solidità.

Ogni mese tornavo per qualche giorno a Bombay. Quella volta, invece, al posto del solito vaglia che mia madre spediva all’American Express (60 dollari) c’era un telegramma. Il mio agente scriveva chiedendomi di tornare a Roma quanto prima per un provino. In ballo c’era un ruolo da coprotagonista accanto a Jack Nicholson per il prossimo film di Michelangelo Antonioni. Non ne avevo nessuna voglia, ma la proposta oggettivamente era interessante. Se la faccenda fosse andata in porto avrei guadagnato abbastanza da rendermi indipendente dalla famiglia e riprendere il viaggio con la tranquillità economica necessaria. Ponevo solo una condizione: che la produzione pagasse almeno il viaggio aero. Pochi giorni dopo un biglietto Bombay – Roma della TWA Airlines era nelle mie mani. Tornato a casa avrei scoperto che a quel biglietto aveva provveduto mia madre di tasca sua. Da mesi era in pena per la mia lunga assenza, non aveva resistito. Comunque superai il provino. Il film però non andò in porto, problemi di budget mi dissero. Così, dopo aver venduto la chincaglieria indiana che avevo portato con me ero ripartito per l’Afghanistan. Stavolta insieme ad Anna. Passato qualche mese, al ritorno, ricevo una telefonata. Era Giancarlo Santi, l’aiuto regista di Antonioni: «Ciao Albé… ma tu sai andare a cavallo? Rispondo di sì. Mio padre, ex ufficiale di cavalleria poi giornalista mi aveva messo in sella fin da ragazzino. La mia fulminea epopea western era cominciata così. E adesso mentre il nodo scorsoio si serrava attorno al collo, rivedevo ad occhi chiusi i due anni appena trascorsi: la Flaminia che sfreccia sotto l’Ararat, noi cinque in Nepal grondanti di felicità sotto la cascata, la casetta della “Febbre dell’Oro” alle pendici dell’Himalaya, gli insegnamenti di Kalu Rimpoche, le fumerie d’oppio di Bombay, i tramonti di Goa. E sorridendo veniva da chiedermi ancora una volta… che ci faccio qui?

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6 risposte

  1. Grazie Paolo! Confesso che solo adesso comincio a capire come funziona questo Blog. Cosa fare per leggere gli altri interventi. Ps: credo che una semplificazione gioverebbe. Ciò detto mi piace molto. I nostri piccoli romanzi di formazione e di viaggio che si incrociano lungo gli stessi itinerari…. ma anche diversi, come nel caso di John, danno l’idea di un’epopea collettiva e generazionale unica. Bravo anche tu. E sempre grazie a Pino che ha avuto questa bella idea.

  2. Nice story!
    Come scritto nei miei post, Katmandu la conobbi solo nel 97…
    Bellissimo posto il Nepal! Mi innamorai dei nativi.

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