da Roma a Katmandu 5

Sono a Darjeeling da qualche mese ormai. Abito in un casupola di legno posta sul ciglio di una valle dalle pareti scoscese, quasi verticali simile a quella del film “La febbre dell’oro” di Charlie Chaplin. Dalla finestra al mattino (ma anche di notte con luna piena) vedo risplendere le nevi perenni del Kanchenjunga, la terza vetta dell’Himalaya. Dai miei compagni di viaggio mi ero separato a fine agosto. Arrivati a Katmandu la Flaminia era stata venduta, dopodiché ognuno per la sua strada. Senza più la rete confortante dei miei amici, senza limousine, mi ero diretto a Calcutta.

In Nepal ero stato due settimane, il tempo concesso dal visto turistico. Al nostro arrivo ci aveva accolto la visione di sette arcobaleni sospesi sulle valli circostanti ricoperte dalla lussureggiante foresta tropicale. Dopo quel miracolo della natura ci eravamo fermati per tuffarci in una cascatella di acqua gelida e limpidissima che scrosciava dalle ripide pareti della montagna, proprio sopra la strada. Quella foto di noi cinque sorridenti, i corpi grondanti d’acqua e di felicità resta uno dei ricordi indelebili del viaggio.

La città moderna già caotica e intasata da un traffico infernale – automobili, bus, biciclette, risciò, vacche sacre – non era ancora tracimata oltre misura. La vecchia Katmandu dava l’idea di essere la stessa di cento o duecento anni fa. Con i suoi edifici di mattoni, i tetti a pagoda, le finestre dalle travi in legno finemente scolpite, le piccole botteghe sollevate dal livello strada e i venditori accoccolati in mezzo alle stoffe, alle spezie multicolori. Intorno, templi e tempietti indù e buddhisti dappertutto. Senza dimenticare il tempio delle scimmie sulla collina di Swayambhu con il grande stupa del Buddha dorato e l’Om al centro della fronte. La mescolanza di buddismo e induismo dava l’impressione di aver partorito una popolazione stranamente felice. Le donne, in particolare le tibetane, erano decisamente più libere e allegre rispetto alle sorelle dei paesi islamici o della stessa India. Per dire: il divorzio che l’Italia avrebbe conquistato proprio a dicembre di quello stesso anno, il 1970, per i tibetani era un’istituzione da quasi un secolo. La categoria più felice sembrava quella dei bambini, amati, coccolati e lasciati in libertà come non avevo mai visto altrove. Anche se in quegli occhi ardenti come tizzoni si coglieva talvolta una malinconia e una consapevolezza smagata che non ti aspetti da un bambino. Ricordavano gli sguardi sorridenti dei sciuscià napoletani visti in fotografia e nei cinegiornali del dopoguerra con i segni della fame e della miseria stampati in faccia. Non era raro già dai sei o sette anni vederli fumare, come i nostri scugnizzi del resto, assiepati sui gradini di uno stupa o sul prato di un’aiuola passandosi enormi chillum di terracotta. Il più delle volte erano proprio loro a fare da guida ai piaceri proibiti di Katmandu. Prendevano per mano il ricco turista o il fricchettone di turno e lo portavano in giro, pronti a esaudire ogni suo desiderio in cambio di un modesto “bascisc”. Ogni tanto qualcuno spariva. La vendita e il commercio dei bambini a scopo sessuale era già un fenomeno allarmante. Anche se nessuno ne parlava. L’hascisc in Nepal era legale. Le vie del centro abbondavano di Eden shop e Psychedelic Café con roba di ogni tipo. Ma i veri hippies erano già spariti da un pezzo, assieme alle tracce d’oro della cultura underground seguite da Ginsberg e dai padri del movimento. Quelle in circolazione erano più che altro imitazioni. Ragazzi e ragazze interessati soprattutto alla droga più che al misticismo. Convinti che il Nepal fosse un Luna Park dello sballo, che bastasse un trip per ottenere l’illuminazione o che un giro di giostra in overdose equivalesse al Nirvana. Dopo quindici giorni la Shangri la dei fricchettoni aveva mostrato le sue crepe.

Tutti quei chillum, per non dire del resto, non è che mi avessero fatto così bene. Piuttosto avevano fatto venire alla luce la mia fragilità. Quando ci manca la terra sotto i piedi e non riusciamo a trovare nulla a cui aggrapparci si sta male. Ma abbiamo comunque una scelta: lasciarci prendere dal panico e chiuderci in noi stessi oppure, come suggeriva Gary Snyder, uno dei mentori della beat-generation «avere il coraggio di tuffarsi nel caos della vita ed esplorare le visionarie terre dell’inconscio». Io non mi sentivo pronto, scelsi la via dimezzo. Durante il viaggio avevo sentito parlare di Kalu Rinpoche. Non il solito “guru Cola”, ma un grande maestro spirituale, insegnante di Dharma e meditazione. Viveva in un monastero tibetano non distante da Darjeeling, nel Bengala Occidentale. Così mi ero messo in viaggio.

 

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