da Roma a Katmandu 3 (revisited)

Per quanto mi riguarda tutto aveva avuto inizio pochi anni prima, nel 1965, proprio in quello strano laboratorio socio-politico ed “esperienziale” ricavato nel sottosuolo del quartiere Coppedé. La soglia che separava il mondo di sopra – grigio, conformista e ipocritamente democristiano – e il mondo di sotto ribollente di “teen spirits”, musica strepitosa e voglia di trasgressione era presidiata da un tipo assai curioso, si chiamava Marcello. Alto come un corazziere, lineamenti da antico romano, l’aria aristocratica del gay (allora si diceva “frocio”) vecchio stampo, simpaticissimo. La prima volta, notando il mio abbigliamento giacca e cravatta mi aveva squadrato con un certo sussiego. Poi, con una strizzata d’occhio e un sorriso divertito come a dire “vabbè pe’ sta volta…” mi aveva lasciato entrare. Chi avrebbe detto che una volta discesi quei gradini nessuno di noi sarebbe più stato quello di prima? I nostri corpi ancora acerbi cominciarono presto a mettere in mostra i segni di una mutazione perturbante. Le ragazze vestite con canotte attillate e minigonne inguinali ( Nilde e Barbara che ballavano sul cubo illuminato), il trucco pesante; i maschietti con i capelli lunghi fino alle spalle, i pantaloni a zampa di elefante, le camice a fiori, gli stivaletti con il tacco rialzato, l’arma fumante della rivoluzione beat – il “phon” – costantemente a portata di mano. Avrei voluto vestire come loro, essere come loro. Un ribelle, un ragazzo di strada per lanciare finalmente la mia sfida alla rispettabile società borghese di cui, pur vergognandomene un po’, ero comunque figlio. I miei sogni si sarebbero presto esauditi. Dopo qualche mese avevo in tasca la tessera riservata al nucleo di fedelissimi di cui ormai facevo parte, grazie anche al mio look da piperino doc. E adesso me ne stavo sotto il palco assieme ai miei nuovi amici Giorgio Farina, Giuliano Chapman e Ciclamino guardando dall’alto in basso i fighetti di Roma-Nord vestiti in giacca e cravatta (proprio come ero io solo qualche mese prima) che si agitavano tutti sudati sulla pista da ballo. Diciamolo: una bella soddisfazione!

Quell’anno, in prima liceo ero stato rimandato in due materie. L’idea di passare l’estate sui libri non mi faceva impazzire. Mia madre d’altronde non era intenzionata a fare concessioni. Così una sera, con la scusa di andare a comprare delle gomme americane saltai sulla vespa di Albertino Marozzi che aspettava dietro l’angolo e mi dileguai nella notte. Non so cosa mi era preso né il perché di quel gesto crudele. L’adolescenza fa brutti scherzi a volte. Mi sentivo una vittima, in realtà ero solo un ragazzo scriteriato, totalmente auto referenziale. In ogni caso feci perdere le mie tracce per un sacco di tempo senza dare notizie. “Chi l’ha visto?” non l’avevano ancora inventato. Così mio padre si era rivolto alla polizia. Mi rintracciarono due mesi dopo al Piper di Viareggio. Per l’inaugurazione il boss, Giancarlo Bornigia aveva fatto venire da Roma una task force di piperini DOC. In pratica non dovevamo fare niente a parte starcene lì con le chiome al vento vestiti come al solito. Vitto e alloggio pagato. Due consumazioni gratis a sera. E perfino una piccola diaria. Una vera pacchia. La pensione dove alloggiavamo era la stessa dove stavano anche le favolose topless girl reclutate a Londra da Alberigo Crocetta. La sera servivano ai tavoli del Piper tette al vento. I matusa venivano apposta da tutta la Versilia a godersi lo spettacolo. Dopo chiusura si tornava tutti alla pensione e cominciava la festa.

Alla fine di quella indimenticabile estate di sex, drugs and rock’n’roll, non mi ero presentato agli esami di riparazione. Che idiota! Così adesso mi toccava ripetere l’anno. Nel frattempo, per mia fortuna avevo messo su una rock band. I pomeriggi in biblioteca li trascorrevo in realtà in una cantina/sala prove con i miei nuovi compagni d’avventura: Gianni Mereu alla chitarra, poi sostituito da Gigi Lopez, Andrea Petrucci al basso e Marco Massaccesi alla batteria. Ci chiamavamo The Shocks. Io ero per così dire il cantante. Sul palco facevo parecchia scena (il “Mick Jagger di Roma Nord” ) ma la voce, francamente, non graffiava granché. In compenso la band non era niente male. Insieme tiravamo fuori una bella energia. Il 1968 aveva visto anche gli Shocks sulle barricate. Gli Uccelli, l’ala “situazionista” del MS, ci avevano invitato a suonare nell’Aula Magna di Architettura. La facoltà era occupata da settimane e il clima rovente. Sul più bello una agit-prop marxisti filo cinesi sale sul palco e mi strappa il microfono: «È ora di finirla con questa musica capitalista e reazionaria» (stavamo suonando un pezzo di Jimi Hendrix) Subito dopo attacca a leggere sentenze dal Libretto Rosso di Mao. Il servizio d’ordine, vista la situazione ci fa capire che è meglio se ce ne andiamo. Noi non ce lo siamo fatti ripetere. Quella stessa notte a qualcuno venne la brillante idea di appiccare il fuoco alla facoltà. Il mattino seguente sul “Tempo” c’era un articolo con la nostra foto. Scoprimmo così che tra i presunti responsabili dell’incendio c’eravamo anche noi. Due anni dopo gli Shocks si sciolsero. Io nel frattempo mi ero messo sotto a studiare per l’esame di maturità. Portavo tre anni in uno, roba da far tremare i polsi. Ma con un po’ di fortuna e molta faccia tosta me la cavai. Il viaggio era il premio per quella promozione insperata.

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