Da Roma a Katmandu 1970/02

Se non ricordo male, ero il solo della compagnia, oltre al citato “fotografo”, a non avere mai messo piede in India. Gli altri, a cominciare da Beppe, di qualche anno più grande di noi – era stato perfino sposato con una “principessa” persiana e aveva vissuto per un certotempo a Teheran- ai miei occhi risultavano dei veterani. Nel senso che avevano già compiuto l’impresa più di una volta non solo per il gusto dell’avventura ma anche per ragioni di affari. Lo stile hippie, il rock, la psichedelìa avevano riformato il codice d’abbigliamento giovanile in tutto l’Occidente. Le lunghe gonne a fiori, le camice scollate di seta, i velluti schiacciati, le giacche di montone (sheepskin), il profumo patchouli e tutto esotismo che in quel periodo faceva tendenza – inclusi necessariamente l’hashish, l’oppio e i suoi derivati- proveniva dalla Turchia, dall’India, dal Nepal, o dall’Afghanistan. Così, cavalcando l’onda, Beppe e soci avevano messo su una propria attività di “import”. Aggirarsi per i mercati, trovare gioielli e manufatti artigianali, scegliere stoffe, accordarsi con le sartorie, bere innumerevoli bicchierini di tè seduti su un cuscino a gambe incrociate davanti a un narghilè per definire il prezzo, predisporre ordini e spedizioni. Tutto questo, come avrei scoperto in seguito, faceva parte del gioco. Del resto, a mia insaputa, vista la mia considerevole ingoranza stavamo già percorrendo un tratto della via della seta. L’unica via transitabile che attraverso il Kyber Pass consente di raggiungere l’India evitando gli impervi valichi del Karakorum passa, appunto, per l’Afghanistan. Per la sua posizione strategica nei secoli il paese era stato, e lo è drammaticamente anche tutt’ora, al centro di continue dispute. La stessa Herat, dove saremo giunti a breve, era stata rasa al suolo da Gengis Khan che aveva fatto impilare le teste dei suoi 40mila abitanti come macabre piramidi . Il colpo di grazia alle gloriose creazioni dell’arte islamica sopravvissute a quattro secoli di barbarie l’avrebbero dato però gli inglesi, nel 1885, distruggendo buona parte delle sue principali vestigia per scongiurare che la città cadesse nelle mani dello Zar. Il braccio di ferro che impegnò inglesi e russi per buona parte dell’Ottocento, nelle pagine di “Kim” avrebbe trovato una definizione destinata a durare: Grande Gioco.
Ma questo riguardava il passato. In quegli anni invece il tragitto che attraverso la Turchia, l’Iran, l’Afghanistan, il Pakistan conduceva in India, detto anche “Hippie Trail”, si affrontava con relativa tranquillità, utilizzando i più disparati mezzi di trasporto, anche se ovviamente i più economici risultavano di gran lunga i preferiti. Mesi dopo avrei incontrato un tizio che era arrivato a Kabul in sella ad un Ciao. La pacchia sarebbe durata fino all’invasione sovietica del 1979. Poi le porte si richiusero. Un ventenne che volesse ripercorre lo stesso cammino oggi, ammesso e non concesso che ci riesca, rischierebbe di trovarsi in un mare di stramaledetti guai. Ciò detto, quella a cui noi stavamo dando vita, approfittando del momento di grazia che la Storia ci aveva gentilmente concesso, era un’invasione decisamente bizzarra, pacifica e beatamente stonata.
La faccenda si palesò in tutta evidenza, dopo aver lasciato Mashhad e le sue turbe di pellegrini molesti, arrivando alla frontiera di Islam Qala. Centinaia di ragazzi europei, nord americani, giapponesi, australiani stazionavano da ore sotto nel paesaggio deserto sotto il sole in attesa di ottenere il maledetto timbro sul passaporto. Più che alla frontiera di un paese tradizionale islamico (sebbene assai all’epoca tollerante) pareva fossero lì con chitarre, bonghetti e i loro chillum fumanti per celebrare la festa del Flower Power .
Fra i vagabondi del Dharma in marcia alla volta dell’India – chi in automobile, chi in pullman, chi in autostop –  quell’anno sarebbe passata di lì anche una nutrita rappresentanza di quella che ho soprannominato la brigata Piper. Di fatto, parecchi ragazzi che avevano frequentato il cosiddetto “tempio del beat” fin dai suoi esordi, anche amici di vecchia data, all’insaputa degli altri erano partiti da Roma diretti a Goa o a Katmandu, proprio quell’estate. Di qualcuno si sarebbero perse le tracce, molti non si sarebbero neppure incontrati, altri ancora avrebbero vissuto insieme la più grande avventura della loro vita.

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