Che ci faccio qui? La risposta non è sempre facile. Me lo stavo proprio chiedendo una radiosa mattina di molti anni fa mentre il boia mi stava mettendo il cappio al collo per impiccarmi. Che brutta fine, pensavo, osservando la piccola folla di coloni, cowboy, bambini curiosi e giocatori d’azzardo radunata per l’occasione davanti al patibolo. Se sono vivo, va detto, è solo grazie allo sceriffo Lee Van Cleef, alla sua mira infallibile e al provvidenziale colpo di pistola che aveva spezzato la corda da cui penzolavo poco prima dei titoli di coda. Un incubo a lieto fine? Non esattamente. Il film, uno sgangherato western-spaghetti intitolato “Il grande duello” (1972), viene ancora trasmesso di tanto in tanto in tv. E il giovane cowboy che fugge a cavallo inseguito da una banda di truci cacciatori di taglie, anche se il nome d’arte, Peter O’Brian, non vi dice nulla è proprio il sottoscritto. Tornato da poco in Italia, reduce l’India, per una serie inopinata di coincidenze che spiegherò più avanti, ero stato scritturato in quel film con ruolo da co-protagonista accanto al mitico Van Cleef. Unici indizi del cortocircuito spazio-temporale, oltre alla capigliatura stile figlio dei fiori e alla OM tatuata sul dorso della mano destra, un sigaretto beedi (marca Ganesh) che di tanto in tanto spunta tra le mie labbra. Nelle intenzione del regista avrebbe dovuto rappresentare la risposta ironica, in chiave giovanilistica, al mezzo toscano che Clint Eastwood masticava senza sosta, con il sorriso tra i denti, nella famosa trilogia di Sergio Leone. Peccato che nessuno se ne accorse.
Peter O’Brien
Già, come ero fino lì? Se premo il tasto rewind la memoria mi riporta un paio d’anni indietro, all’estate del 1970. L’auto su cui viaggiavo – una vecchia e lussuosa Flaminia 4 porte, color grigio metallizzato con sedili in morbido cuoio rosso, acquistata da uno sfascia carrozze giusto la settimana prima della partenza, procedeva stereo a palla lungo la strada che da Erzurum conduce alla frontiera con l’Iran tagliando in due l’altopiano anatolico. Verso Est il profilo del monte Ararat, con la cima ancora imbiancata di neve nonostante la calura d’agosto, si stagliava maestoso contro un cielo color cobalto. Alla guida, avvolto in una nuvola di fumo dall’aroma inequivocabile c’è Renzo Puccini, sguardo incollato alla strada e bandana d’ordinanza che gli cinge la fronte. Oltre all’indomito driver, sbracati sul sedile posteriore si riconoscono Mimmo Nicoletti con i suoi inseparabili Persol dalle lenti fumé inforcati sul naso, un Beppe Morandi in elegante versione figlio dei fiori e un tizio che ancora non conoscevo, Claudio Cardella, la cui borsa stracolma di macchine fotografiche, obiettivi, flash e cavalletto occupava una consistente porzione del portabagagli. Il sottoscritto è momentaneamente impegnato a rollare un cannone seduto accanto al conducente. La carta stradale funge da piano d’appoggio, mentre le note di “Whole Lotta Love” scandiscono il ritmo del paesaggio che scorre oltre il finestrino. A un certo punto, in lontananza, scorgo una figura che sembra saltar fuori dalle illustrazioni in 3D della Bibbia. Un mistico, forse un mullah o un capo villaggio a giudicare dal portamento ieratico e dalla foggia del turbante. Il vecchio se ne stava sul ciglio della strada impugnando un lungo bastone, quasi certamente appartenuto al Profeta, intimando perentoriamente di fermarci. Era chiaro, chiedeva un passaggio. Ma nessuno, tranne me pare farci caso. Così l’auto con a bordo l’incauta combriccola di fricchettoni lo supera senza degnarlo di uno sguardo. Del resto eravamo stipati come sardine, anche volendo dove avremmo potuto sistemarlo? Lui questo però non lo sa. Mentre l’auto procede nella sua corsa, tiro giù il finestrino per guardare indietro. Mi accorgo che il vecchietto, nel frattempo, aveva gettato a terra il turbante e ci stava saltando sopra scagliando intraducibili invettive al nostro indirizzo. Dico: ragazzi quello non scherza, sarebbe stato meglio prenderlo a bordo. Dopo meno di un chilometro l’auto si blocca. Ed eccoci in panne nell’assolato altopiano anatolico. Intorno a noi solo un po’ di capre e in lontananza qualche cammello al pascolo nella steppa. Il vecchio pastore dell’Ararat aveva colpito. Ci volle un bel po’ prima di realizzare cos’era successo. Sembrava incredibile, ma si erano proprio spezzati gli avvolgimenti in rame del motorino d’avviamento. Un guasto che capita una volta su un milione, aveva spiegato Puccini, l’unico fra noi che ci capisse qualcosa. Per fortuna un camionista pietoso accettò di trainarci fino al villaggio più vicino. E lì, smontata la dinamo, il figlio del meccanico, poco più che un ragazzino, riuscì miracolosamente a ripristinare “a mano” gli avvolgimenti consentendoci così di arrivare in serata a Tabriz, la seconda città iraniana per importanza (dopo Teheran) fornita di pezzi di ricambio e di una officina attrezzata. La prova che il cielo ci aveva mandato era stata superata. Prima raggiungere Katmandu ne avremmo affrontate parecchie altre. Ma era chiaro, lo era stato fin dall’inizio, che questa non era la solita vacanza. Era appunto un viaggio. Il mio primo viaggio fuori dall’Europa. E per quando cercassi di non darlo a vedere, ostentando una certa disinvoltura, ero davvero molto emozionato.
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6 risposte
Si dovrebbe fare di nuovo… ma si’ lo so… sono sempre il solito matto…come dice una mia amica “ no culo de male assiettate” …. comunque caro Alberto .. bella storia…. Si cercano volenterosi…. a presto
Mi sono guardato “Il grande duello”… Ma i capelloni comparse erano conoscenti? Mi é sembrato di vedere Giuliano Chapman…
Bello, Albe’
chissa’ il meccanico di Tabriz era lo stesso che riparo’ la mia 2CV…
fantastico! come era girare gli spaghetti western accanto a un mostro sacro come Van Cleef? attendo seguito👏🏻
Complimenti Alberto! Ho visto il vecchietto che saltava sul turbante, come un cartoon…
Lascia con la voglia del prossimo capitolo…