Costante epifania la vita; basta accorgersene. Appena 11 giorni fa qualcuno mi scoperchiava un pezzo di nuca e con un bisturi laser, mi sembra di aver capito, rimuoveva metastasi e tracce di un precedente intervento radioterapico. Operazione chirurgica definita “fifty/fifty”, senza alcun richiamo commerciale.
Intervento che rifiutavo ma gli addetti hanno chiarito che era la sola chance per continuare nella valle di lacrime, così dopo aver incontrato chi sarebbe stato il chirurgo ho dato l’ok.
Undici giorni fa. Adesso riposavo sul letto in una tregua pomeridiana al fottuto Cortisone e una telefonata mi ha destato.
Mi ritrovo alla tastiera, caratteri 36 perché gli occhi devono ancora riprendersi e penso ai regali che la vita ti fa e al concatenarsi delle coincidenze.
Partirei da Baga, Goa 1970, nella mia ampia casa sulla spiaggia dove spesso ospitavo qualcuno. C’era Peter quella volta, un americano barba folta in fuga dai marines del Vietnam. Come lui parecchi disertavano e si rifugiavano nel vicino paradiso hippie.
Dormiva nella sua stanza buttato a terra tra sacco a pelo e zaino disfatto quando arrivò un pescatore goano ad avvertirmi che c’era in giro la MP americana a rastrellare disertori.
“Peter, wake up!”
In un attimo raccolse le sue cose alla rinfusa, un abbraccio e non l’ho mai più rivisto. Buena suerte a lui, spero, perché mi lasciò uno dei regali più belli mai avuti. Riordinando il bordello che aveva lasciato tirai su un libricino della Penguin: “Basciò. The narrow road to the deep North and other travel sketches”.
Una festa scoprire gli haiku per uno sopravvissuto anche a Pascoli e Parini.
Basho fu un compagno per l’arco di una vita donandomi una filosofia che sempre mi arricchisce.
Mi arricchì anche di un piacevolissimo incontro a Milano vent’anni dopo durante una noiosa cena dopo sfilata ai tempi di me e l’alta moda.
Al tavolo un industriale giapponese di elicotteri con una sua amica, soprano lirico alla Scala. Bella giapponese dal viso intelligente con la quale annoiatissimo scambiavo facezie.
Saputo dei tempi in Asia mi chiese cosa conoscessi del Giappone e io tirai fuori il mio amore per Basho. Sorpresissima che in Italia qualcuno avesse letto quello che mi disse era per loro come l’Alighieri per noi, mi raggiunse dopo il bar in camera e la notte trascorse piacevolmente allietata dagli squittii della soprano che però sapevo comuni alla cultura e non alla professione.
Altri trenta anni e il cancro come da laido copione si affaccia e opta per il mio encefalo. Da qui la non possibiltà di evitare un intervento chirurgico, ma dopo consulti vari tra amici e esperti mi affidano a un chirurgo pare di chiara fama.
Me ne fotto: voglio vedere chi è. Un tipo che appena gli domando circa l’invasività dell’intervento butta un’occhiata alla mia calvizie e fa: “Tranquillo. I capelli non glieli sciupo”.
Entro così in sala operatoria, ci soggiorno sei ore, mi raccontano, per passare in terapia intensiva dove la reazione è tale che mi riportano in stanza nel mio letto.
Vengo svegliato da una frizzante infermierina che entra accendendo la luce e trillando “Terapia, terapia!”.
Non ho coscienza di dove sono, così quando la vedo appressarsi all’altro letto e sparare una siringa nel braccio dell’ottantacinquenne addormentato lì accanto e vedo questo tendere le gambe e inarcarsi all’indietro spalancando la bocca, realizzo: “Sono in un Hospice e stanno finendo i malati terminali!”
L’infermiera è uscita per prendere i medicinali da buttarmi giù per le due flebo che intanto mi ha infilato nelle braccia. Io repentinamente mi alzo dal letto, tiro via i due aghi e afferrato il bastone mi nascondo in bagno.
“Cino? Cino?”, chiama la ragazza cercandomi. Mette anche la testa nel bagno ma io sono appiattito dietro la porta. Non mi scorge e torna fuori chiamandomi ancora e sollecitando un aiuto. Ritenta il bagno e questa volta mi scopre dietro la porta.
Balzo davanti a lei, le poggio il manico del bastone sulla fronte e: “Ti apro come una cozza. Portami fuori di qui!” le sibilo in faccia.
La fanciulla è pallidina ma il braccio di Antonio, un giovane chirurgo salentino che era accorso e che avevo avuto modo di conoscere nei giorni precedenti mi prende la mano e mi tira fuori dicendo: “Vieni, vieni. Ti devo parlare.”
Altri medici, come lui stesso in quel momento, mi diranno di un effetto che chiamano decompressione cranica che avviene quando l’aria si infila per la prima volta in quel contenitore. Può dare stranissime reazione psicologiche.
A me prende che mentre sto sedendo accanto a lui afferro il cellulare faccio il 113 mettendo in vivavove. Vedrò poi che la chiamata è durata una decina di minuti; poi sarà partito un vaffa.
“Questo non è un carcere”, gli dico, “quindi io firmo e me ne vado.”
“No. E’ un ospedale ma io tu ho operato ieri e io non firmo quindi non esci.”
“Ospedale?”
“Sant’andrea. Sesto piano. Neurochirurgia.” Esibisce una voce calma e paziente il dottore.
“Ma se ha appena ammazzato quello!” indicando il vecchio malato steso alla mia destra con la bocca spalancata.
L’infermiera si affretta a scuotere il cadavere che si tira su biascicando: “Che c’è? Che c’è?”
Allora non è morto, realizzo.
Antonio continua a parlarmi. L’infermiera torna a infilare gli aghi mentre scopro che il giovane è un viaggiatore che dopo aver iniziato con Santiago e 250 chilometri a piedi adesso si dedica a itinerari africani da scoprire. Un viaggiatore.
Senso di gratitudine mi invade e restato solo considero che mi piacerebbe lasciargli un ricordo di me così come io l’avrà di lui e dei suoi colleghi di sala operatoria.
Un viaggiatore. Chi meglio di Basho Matsuo?
Concatenamenti epifanici.
NB: a scrivere ste du’stronzate c’ho messo un’ora e mezzo e font corpo 36. Glissiamo sulle segnalazioni erroti (questo lo lascio) propri della battitura ma cred oche gli occhi stiano pian piano riprendendo. Forse riuscirò anche a leggere le recenti puntate del Paci.
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