Costante epifania 2 che poi sarebbe 1

21 febbraio
Il mio scrivere e pubblicare sul Decamerone Social che potrebbe anche sembrare eccessivo si rifà alla situazione che sto vivendo.
Uno che ha letto di tutto per più di mezzo secolo si ritrova all’improvviso semi cieco nel senso, come ho raccontato in una pagina precedente intitolata “Costante epifania la vita”, che il mio nervo ottico di destra se lo sono bruciato certe metastasi di ballerine.
Diritto in piedi ci sto ma all’intorno sono falsate distanze e prospettive.
Non è curabile dicono e in queste condizioni è inutile pretendere di seguire un rigo o un paragrafo né sulla pagina né a schermo.
Non ho nulla da fare tutto il giorno se non gli atti concessi a un disabile: seguire qualcosa in televisione è una scommessa e perfino una partita di calcio è omini in mutande colorate che si spostano da una parte all’altra dello schermo. Ma il pallone c’è?
Mi è toccato come da “patto stipulato” cinquant’anni fa e tra le poche cose conservatemi c’è la tastiera che trovo a memoria. Quindi seduto al computer scrivo.
Questa digressione, ampio salto cronologico da Goa 20, per chiarire meglio la situazione. Ovvio che sono in una parentesi in cui il “me ne frego” è quasi d’obbligo.
Costante epifania 2 che poi sarebbe 1
Mezzo secolo dopo aver stipulato quel patto accadde che un medico che aveva studiato e raggiunto la meta agognata, come ai tempi andati si diceva, quindi non un pressapochista di scarno ingegno, completo di camice bianco gli dicesse: “Cellule cancerogene. E’ meglio lei faccia una tac e senta uno specialista.”
Fa parte, questa, delle frasi che potendo scegliere uno non vorrebbe mai ascoltare eppure toccò proprio a lui quel pomeriggio confrontarsi con tale evento.
Roba da terza persona singolare.
Si sentivo bene, in forma per i suoi sessantotto anni di fumatore e di “non risparmiato”, così definiva quello che era stato il suo modo di vivere fino ad allora; dolori non ne sentiva neppure lì alla gola dove se ne stava da un po’ di tempo quel bozzo che gli gonfiava tra collo e clavicola e che lui avevo subito etichettato come “mal di gola che tanto passa”.
Eppure quello aveva fatto un’ecografia e poi era diventato più serio di quanto già non apparisse per comunicare quella diagnosi e dargli, perentorio, quel consiglio di contattare uno specialista.
“Specialista in che?”, si chiedeva uscendo di lì.
“Cancro?”. “Io?”. “Bhà?!”
Comunque quella cosa andava affrontata, così uscito di là tornando a casa pensai a Stefano, il mio vecchio amico, per una vita referente per quel che concerneva malanni fisici.
Il primissimo pregio di Stefano, chirurgo e “scienziato” come lui si definiva, era l’esperienza maturata tra trincea ospedaliera e insegnamento universitario, il che lo rendeva un estremista quando si trattava di problemi veri e decisamente caustico se qualche amico si rivolgeva a lui per un raffreddore o una fitta “in basso a destra o sinistra che fosse”.
Il cancro gli sembrò un valido motivo per telefonare a Stefano e chiedere lumi.
“Ciao Ste’ ”. D’altro canto era stato proprio lui a dirgli “Vatti a fare un’ecografia e controlla quel bozzo che hai sotto la mandibola”.
Il controllo era stata una iniziativa della figlioletta: “Hai appuntamento tra un’ora al centro medico vicino a casa tua. Vacci.”
Tout court e a Veronica difficile dire di no.
Saputa la diagnosi, la concretezza di Stefano sottilineò l’urgenza di una Tac per approfondire l’indagine e in contemporanea non gli risparmiò l’immagine di un futuro immediato in cui si sarebbe ritrovato ostaggio di medici senza reale cognizione di causa.
“Il cancro è un terno al lotto. Vedi Gippi quello che ha passato. Ma non c’è altro da fare.”
Concluse senza offrirmi scorci positivi per quanto dentro di me io rimanessi piuttosto scettico.
Possibile fosse capitato proprio a me? Eppure non avevo dolori e mi sentiva sostanzialmente bene. E Stefano, maledetto lui, e Gippi, qualche mese prima si erano fatti protagonisti di una faccenda che aveva coinvolto me e altri amici.
Una telefonata in un periodo che tutti eravamo attenti a quanto succedeva a Gippi messo sotto chemioterapia per un tumore alla gola, che ci faceva andare a trovarlo nella sua casa di Fiumicino, i soliti tre o quattro amici quasi sempre in compagnia di Stefano. Proprio una telefonata di quest’ultimo mi arriva una sera, estremamente serio, per dirmi: “Bisogna andare a trovare Gippi. Gli è rimasto poco.”
Giù spiegazioni su quanto stava accadendo e di come la chemio non avesse funzionato.
Restai inebetito e telefonai a Paolo e Emanuela per metterli al corrente e organizzare una vista per l’indomani. Lei passò la notte a piangere, io a imprecare ma non andammo.
La mattina dopo ci fu la telefonata di Gippi. Rideva: “Coglione ci sei cascato? Quando ti ha telefonato stavo vicino a lui e non riuscivo a trattenere le risate.”
Amici, e questo lo spirito con cui si viveva l’idea del dipartire.
Saputo di me e della mia situazione era una corsa a spartirsi l’eredità. “Questo libro me lo lasci, vero?” “E questo quadro?”
Umoristico fù l’incontro a casa mia la domenica precedente il Natale del ’18. Cominciò Paolo: “Oh…non ti scordare che ’sta lampada è mia, eh?”
“Vattene, va.”
E Gianni unendosi alla conversazione: “E dai… tanto basta che ’sto mobile lo lasci a me.”
“Tanto morite prima voi.” La mia risposta ridendo.
Era un continuo scherzarci su anche se la preoccupazione tra chi mi era vicino serpeggiava.
Oltre a Stefano, amici, sorelle e figli discettavano del pregiato bozzo che gonfiava il mio collo.
Quanti mi erano vicini avevano reagito con “devi fare questo, devi fare quello”; citavano un esame, un altro esame, visite specialistiche e simili.
Se poi fosse stato cancro come Stefano paventava, c’erano: cure a base di Artemisia, di aglio, poltiglie di erbe e radici e tutti sapevano di metodi alternativi che avevano fatto miracoli con lo zio della cameriera del piano di sotto.
Tutti in buona fede, preoccupati e mossi da vero affetto.
“Al primo che arriva con un santino di Padre Pio gli faccio saltare i denti”. Questo chiuse quella fase iniziale e frattanto decisi di chiamare Augusto, altro medico non intimamente amico ma uno che mi aveva sempre dato l’impressione di essere ben calato nel ruolo.
“Mandali tutti a fanculo. Vattene all’istituto Mandelli che quelli non perdono tempo e ti fanno subito una biopsia così si chiarisce tutto.”
Telefonai la mattina dopo e previa lunga attesa rispose finalmente una voce di donna. Spiegai la mia situazione e quella, gentilissima mi comunicò che prima di un paio di mesi non c’era posto per una visita lì da loro ma, che se proprio avevo fretta, potevo rivolgermi a qualcuno bravo che proveniva dall’Istituto. Uno era al San Giovanni, l’altro, tal Guglielmi, all’ospedale Sant’Andrea.
Quest’ultimo nosocomio era a un passo da casa mia così mi feci dare il telefono del medico consigliato; poi ringraziai la signora complimentandomi per la gentilezza e disponibilità di un’operatrice telefonica ma quella mi disse: “Oh, non sono un’operatrice. Sono la segretaria dell’Istituto. Passavo di qua e ho sentito il telefono squillare. Così…”. Il mio culo e le mie coincidenze.
Un paio di anni più tardi capitò che Lucia, l’uniforme grigia con i bordi gialli che distingue il personale addetto alle pulizie, divisa di una delle cooperative interne dell’Ospedale Sant’Andrea, mi vede portare le braccia sul petto per resistere al dolore lancinante che mi provocano i colpi di tosse e interviene dicendo: “Mettile a croce, in alto. Così, guarda.”
Il gesto che accompagna il suo consiglio al seguente colpo di tosse si dimostra migliore di quanto mi avevano suggerito in reparto infermieri e medici.
Non che questi difettassero di professionalità e attenzione. Splendidi tutti quanti. Sempre disponibili e capaci.
Questa l’impressione avuta fin dal primo giorno, due anni prima, quando avuto un appuntamento con il Professor Guglielmi, ematologo, mi sentii dire che bisognava indagare e il modo migliore sarebbe stato fare una biopsia.
Il Professore, diventato in seguito un ottimo amico, era stata una delle coincidenze compagne misteriose della mia vita.
Conobbi Cesare Guglielmi quando rispose direttamente lui al numero datomi da quella segretaria, anche lui dicendo che aveva sentito suonare il telefono e visto che non c’era nessuno…
Mi ricevette la stessa mattina e dopo aver tastato il colpevole bozzo prese su il telefono, chiamò un chirurgo dicendo che voleva una biopsia e lo specialista che dopo cinque minuti arrivò tastò anche lui il gonfiore che avevo sul lato sinistro e comunicò che avrebbe voluto un anestesista per fare la biopsia. Anche questo in dieci minuti fu lì e aggiunse che avrebbe però voluto un cardiologo.
Prelievo del sangue, elettrocardiogramma e alle 12 fui congedato dicendomi che mi avrebbero fatto sapere.
“Ma tu guarda la sanità pubblica!” Andavo considerando mentre camminavo fuori di lì.
Il tempo di raggiungere la macchina al parcheggio, girare la chiave e veder squillare il telefono: “Signor Cino? Dove é?”
“Al parcheggio del Sant’andrea”
“Rientri immediatamente e al pronto soccorso: lei è in codice rosso.”
“Io?”
E al pronto soccorso mi dissero che l’esame del sangue aveva segnalato due infarti forse in corso.
Il pronto soccorso era la bolgia infernale che si può immaginare.
Mi stesero su un lettino, fecero un altro prelievo del sangue e un altro elettro cardiogramma. “Rimarrà qui in attesa che si liberi un posto a Cardiologia.”
“Per ricoverarmi? Non è possibile.” Risposi. “Vivo da solo con un figlio adolescente che sta per uscire da scuola proprio adesso e dovrei organizzarmi.”
Il capo lì dentro ci pensò su un momento poi mi disse: “Io sarò di turno fino a domattina alle nove. Venga verso le otto e io farò risultare che è stato qui tutto il tempo così non perde il posto.”
“Ma vedi un po’ che tipi umani si incontrano qua dentro“, mi dissi e accolsi la sua proposta.
La mattina seguente fui subito trasferito nel reparto di cardiologia e sottoposto ad una serie di esami.
Sei giorni di degenza interrotti per mia volontà quando venne fuori che avevo una sindrome coronarica acuta con complicanze varie.
“La Coronarografia ci mostra che non possiamo accedere e far passare degli Stent per cui non rimane che l’intervento chirurgico.”
Ero subissato dai termini medici e capitò anche una dottoressa che mi domandava: “Al duodeno ha dolore?”
“Ha presente la cistifellea? fu la risposta, “So che come il duodeno è qualcosa che ho dentro da qualche parte, ma…”
Durante il ricovero trovarono il modo di fare la biopsia accertando una diagnosi di “Ca squamoso” da trattare con chemioterapia.
Fu logico dire no all’intervento al cuore. “Sono qui per un cancro. Del cuore ne parliamo più avanti.”
La mia prima reazione all’evidenza della biopsia fu: “Sti cazzi. Ho quasi settant’anni e non ho rimpianti. Ho fatto la vita che ho scelto di fare. Me ne vado in India, un villaggetto di pescatori sotto Goa, senza elettricità e se dovessero arrivare i dolori del cancro… belle pipe d’oppio e vai…”
Feci marcia indietro in cinque minuti: “Angelostefano dove lo metto?”
Un figlio che aveva appena fatto tredici anni e che viveva senza la madre solo con me. La madre, biologica l’aveva definita il giudice, s’era data che il piccolo aveva sei anni e da allora mi ero trasformato in un mammo.
Sapevo bene ormai cosa significasse svegliarsi la mattina e pensare a “cosa gli farò da mangiare, le lavatrici, i compiti, gli amichetti, lo sport”.
Tutto in un paesotto alle porte di Roma anche quello ereditato dopo la separazione e le solite coincidenze.
Ero a Mykonos con la mia casa con vista su cinque isole, lo studio di tatuaggi, il solo sull’isola, che viaggiava alla grande. Me ne stavo sulla veranda dello studio a guardare il solito passeggio di turisti e di locali intenso come ad ogni agosto.
Vidi arrivare la babysitter che mi riportava il piccolo dalla spiaggia fermata lì sotto da un gruppetto di donne che avevano case e negozi lì intorno. Accarezzavano il bambino, parlavano tra loro e le sentii commiserare il piccolo anche dicendo “Quella puttana…” , “Troia, lasciare un figlio…”, e lì presi la decisione.
Chiamai la babysitter che era anche la segretaria dello studio oltre che un’amica da parecchi anni. “Domani si chiude”, le dissi. “Andrò ad Atene.”
Fece obiezioni varie ma io ero ben deciso.
Ad Angelostefano avevo spiegato che mamma era uno spirito libero e aveva sentito il bisogno di partire e viaggiare. Che sarebbe tornata un giorno.
Che mio figlio finisse per odiare le donne era l’ultima cosa che volevo. Tanto avevo già un appartamento affittato ad Atene, contavo di far frequentare lì le scuole italiane ad Angelo anche se già leggeva e scriveva greco dopo la prima elementare. Poi avevo di già trovato uno studio in una zona non distante dalla casa affittata e siglato un accordo con un industriale indiano per tre negozi di tatuaggi tra Bombay, New Delhi e Bangalore. Tornare in India: ne ero più che felice. C’è sempre un ma… con annessi puntini.
Arrivare ad Atene, provare in macchina le distanze e scoprire che dalla casa alla scuola c’era un’ora e mezzo di traffico e rendersi conto che un bambino appena abbandonato dalla mamma non poteva essere affidato a una babysitter tutto il giorno visti i miei impegni di tatuatore privi di orario.
Argh… Mi sedetti sul divano a riflettere. Presi su il telefono e mi confidai con Rita, una psicologa romana mia amica. “Come diavolo mi comporto con un bambino di sei anni?”
Fu la mia rovina: “Fagli mettere radici. Un centro piccolo.” mi consigliò e chiusa la telefonata consideravo Atene, Bombay e le altre opportunità dell’India ma squillò il telefono e, sempre per coincidenza, una voce festosa mi chiese come stavo e che facevo. Manolo, che era venuto a tatuarsi col suo compagno a Mykonos un mese prima. “Quando vieni a trovarci a Formello?”
“Formello? Dove sta”
“Dodici chilometri da Roma.”
“E’ grande Formello?”
“Sarà dodicimila abitanti.”
“Me li trovi una casa e un negozio lì?”
“Ti faccio sapere.” E il giorno dopo chiamò ancora per dirmi che avevo una casa e un negozio a Formello.
Il tempo di sganciarmi da tutto e pochi giorni dopo caricata la macchina ce ne andammo verso l’Italia.
Gli anni in patria diedero ad Angelostefano le radici di cui mi aveva parlato quella telefonata con la psicologa e a me un’insicurezza economica che non conoscevo ma che divenne la nuova realtà.
Formello non era l’isola della trasgressione con la fauna turistica e spendacciona che in estate raggiungeva i due milioni bensì un tran tran da mammo, come ho detto, interrotto da rare e brevi puntate a Roma e per fortuna la compagnia dei vecchi amici che avevo ritrovato in Italia. Una bella casa in campagna, due cani, un gatto e i doveri del genitore.
Adesso pure il cancro da affrontare ma probabilmente per carattere, incoscienza mi disse qualcuno, lo vissi con il fatalismo del sangue napoletano che mi aveva trasmesso mio padre e la compostezza che mi dava il riflettere sulla mia vita fin lì trascorsa, in fondo soddisfacente. Avevo fatto, viaggiato, amato, conosciuto il mondo e gli errori di cui avevo coscienza erano stati privi di malafede.
Ovviamente la mia vita cambiò e diventai un assiduo cliente dell’Ospedale Sant’Anfrea, il mio cinque stelle lo definivo. Nessun ricovero ma esami su esami che l’oncologo, il professor Lauro mi faceva fare.
Quando avevo lasciato cardiologia, dove avevo fatto in tempo ad innamorarmi di una cardiologa dal viso intensissimo che tra le altre cose mi beccò a fumare il mio sigaro del dopo pasto in giardino ma questo finirà in un altro capitolo, tornai da Guglielmi col quale ci davamo ormai del tu.
“Vieni. Ti porto da uno veramente bravo. Può dare l’impressione di lasciare a desiderare sotto il profilo umano ma è bravissimo.”
Insieme salimmo all’ottavo piano dove mi presentò a quello che sarebbe diventato il mio oncologo curante.
Fu proprio a lui che dopo i risultati positivi del primo ciclo di chemio terapia dissi “Bisogna dire grazie alla sua chemio allora”, ribatté: “Ci metta anche il suo carattere”.
Nonostante il suo modo severo una sorta di rapporto si creò con il Professor Lauro.
Non che io ricordi di averlo mai visto sorridere ma per esempio la volta che tornai da lui per un’ulteriore visita e gli dissi che mi ero informato e chiunque aveva parlato bene di lui come di un ottimo medico, “Hanno sbagliato”, mi rispose, “Io sono un genio.”
“Professore, mi sembra chiaro che se lei risponde così il paziente scappa o si mette a ridere.”
“Lei tanto rientra nel secondo caso.” Fu la chiosa finale.
Passavo il tempo fra Tac e Pet di controllo dopo ogni periodo di terapia e nel frattempo convivevo con l’esperienza della Chemio.
Non avevo più un pelo addosso, facevo la doccia e mi guardavo allo specchio e mi paragonavo a una ballerina tedesca liscio e rosa come ero. Dei capelli da anni e anni non avevo memoria ma la cosa che principalmente mi disturbava era la perdita del gusto e dell’olfatto.
Se arrivavano i miei amici per il pranzo della domenica, alla faccia del diabete ereditario portavano sempre qualcosa di dolce, del gelato in estate. Un gioco era farmi dare, stando ad occhi chiusi, un cucchiaino di gelato sempre diverso e provare ad indovinare che gusto fosse. Soltanto freddo.
Spaghetti al sugo o carbonara o qualsiasi altro cucinato lo distinguevo talvolta per la consistenza.
L’altra originalità, due casi su cento, era che dello stronzo non si trovava la cellula primitiva quindi non si poteva procedere in modo mirato con le cure. La Tac diagnosticava qualcosa di sospetto su un polmone e la volta successiva su un rene.
Io non provavo alcun fastidio tranne quando cominciò a venir fuori un mal di testa pernicioso come non ne avevo mai provato.
“Lobo frontale sinistro ci sono delle metastasi. Facciamo della radio terapia.”
Facciamola un po’. Anche qua qualcosa di sorprendente: una maschera da Hannibal in silicone che mi costruirono sulla faccia in diverse sedute. Orrenda e divertente. Gliela chiesi come souvenir ma mi dissero di no perché l’avrebbero conservata loro per cinque anni.
Sempre tutti gentilissimi dal primario, agli infermieri agli amministrativi che incontravo. Andavo ripetendo: “Se mi capita qualcuno che parla male della sanità pubblica gli faccio saltare i denti.”
La radio terapia del Professor Osti, o piuttosto di uno dei suoi specializzandi perché caratteristica di quell’ospedale essendo un polo universitario era la moltitudine di specializzandi che lavoravano lì. Tutti molto giovani, sorridenti e pronti ad ascoltarti.
Tre sedute bastarono: il dolore alla testa scomparve e nel breve al mio Esimio Professore, il genio non della lampada ma del cancro, venne un’idea e considerando che da qualche parte conservavano, disse, i vetrini della biopsia voleva fare un controllo.
Alla visita successiva era raggiante: aveva avuto i risultati di non so quale esame e potevamo iniziare una diversa terapia.
La chemio che avevo fatto fino a quel momento andavo a farla nel Day Hospital Oncologico dove ritrovavo sempre lo stesso personale addetto al reparto. Una sorta di routine che tra un saluto, una battuta o una generica chiacchiera, talvolta un caffè aveva finito per creare un rapporto di conoscenza con taluni di loro.
Da loro seppi che la nuova terapia consisteva in qualcosa di immunologico. Assolutamente nuova fino al punto che quando domandai “Ma quanto durerà ‘sta solfa?”, visto che ogni 21 giorni dovevo andar là e ciondolare per tre o quattro ore aspettando che mi iniettassero per 40 minuti una sostanza da una specie di flebo attraverso un ago infilato nel Port, deliziosa scatoletta che mi avevano inserito sotto la pelle del petto già quattro anni prima, “Tutta la vita durerà”, fu la risposta. “Non sappiamo cosa succede se la sospendiamo. Medicina nuova ma sembra stia funzionando.”
“Ah… annamo bene!” Avrebbe commentato il mio amico Buz ma io ero abbastanza rassegnato a questo tran tran.
“Te sei fatto veni’ il cancro? E mo’ te lo tieni.” Mi dicevo ironizzando.
Il perché venga il cancro me lo son dovuto chiedere e credo sia da riportare a qualcosa che dentro di noi viene a mancare e ci fa mollare difese varie. Ci son voluti un paio d’anni di riflessioni per arrivare a questo che è ovviamente un responso valido per me e solo per me. Ognuno affetto da cancro se lo sarà domandato “Perché?” e ognuno avrà trovato una sua risposta.
Sarebbe curioso mettere insieme le varie risposte, analizzarle e farne anche una ricerca statistica.
Mi trovavo comunque a vivere un’esperienza che non avrei immaginato. Fino ad allora ospedali non ne avevo mai frequentati se non come visitatore.
I malanni capitati erano stati accadimenti temporanei sempre liquidati in breve e senza mai accusare il colpo. Un ipocondriaco era quanto di più distante dal mio carattere.
Un precedente ospedaliero c’era pur stato pochi anni prima a Mykonos: scivolata col motorino, l’idiota seduto dietro a me che precipitava sul mio braccio destro, un male della madonna; lastre, a pagamento, poche ore dopo e a seguire il consiglio di andare a Atene a farmi vedere.
“Che faccio vado in Italia?” Stefano, sempre il mio amico consulente medico da quando eravamo ragazzi viste le radiografie che gli avevo spedite via email diagnosticò: “Puoi anche farla lì l’operazione: è una sciocchezza da un quarto d’ora,”
Okay, prendiamo un aereo, dormiamo in un albergo vicino all’ospedale traumatologico di Atene, dormiamo si fa per dire, faceva un male cane, e la mattina dopo andiamo a sentire che mi dicono.
Incontrai due giovani chirurghi ortopedici che guardarono le lastre e: “Roba da un quarto d’ora”, sentenziarono. “Tra un’ora la operiamo”.
Si da il caso che dopo vent’anni di Mykonos io il greco lo capisca e comunque le due parole che pronunciarono dopo aver dato il via all’incisione della pelle erano due termini di uso popolare sulle bocche greche: “Gamiseta!” e “Gamissu!”
Uno dopo l’altro in sequenza. Traduciamo in romano con “un porca madosca” e “Vaffanculo”.
Scostai la tenda che mi separava dal mio braccio addormentato e “Che succede?” chiesi.
“Niente, niente.” Risposero ma riabbassarono il sipario tra me e loro dicendo qualcosa a un infermiere che passò dal mio lato per mettermi sul naso una maschera. Mondo dei sogni.
Seppi dopo che l’intervento era durato quattro ore e mi risvegliai in una camera a tre letti dove passeggiavano tranquilli alcuni piccioni entrati dal balcone.
Mi feci lì dentro tre o quattro giorni e questa fu la mia unica esperienza ospedaliera prima di diventare un habitué del Sant’Andrea a Roma.
L’operazione greca, che Stefano leggendo il referto giudicò assolutamente non facile era andata benissimo e quattro anni dopo muovevo bene il polso nonostante le barre di titanio interne e un assortimento di viti, ora al secondo ospedale della mia vita ci si trastullava col cancro. E non solo: non potevo dimenticare l’allarme cuore di cui avevano parlato i cardiologi incontrati lì.
“Cini? Ma lei che cazzo aspetta?” mi redarguì un cardiochirurgo rivisto al bar dell’ospedale.
Storpiava il cognome ma la diagnosi fatta la ricordava.
Aveva ragione quella sorridente faccia di un siciliano trapiantato a Roma. Andavo sentendomi ogni giorno più debole fino a faticare ad alzarmi dal letto.
Rottame uno nel frattempo insisteva: “Vai da Luciano. E’ il più bravo.”
Luciano stava per professor Di Biasi, amico carissimo di Sever, mia conoscenza fraterna che datava dal primo viaggio in India, e parliamo del 1970, più di mezzo secolo antecedente, e Rottame uno era il modo di salutarmi ad ogni nostra telefonata. “Rottame uno a rottame due.”
Io però non mi decidevo: l’idea di farmi operare al cuore non mi piaceva neanche un po’ anche se avevo dovuto legare una corda vicino al letto per aggrapparmi e tirarmi su quando mi svegliavo.
Le solite coincidenze, le botte di culo, l’angelo protettore che tutta la vita mi ha scortato e da oncologia mi mandano a fare un elettrocardiogramma, mi facevano fare esami di vario genere per controllare il mio cancro, e quando ho finito di farlo e mi sto rivestendo, l’infermiera fa: “Vado di là a farlo vedere al Professor Di Biasi”.
La seguo e mi presento al professore.
Sever gli aveva parlato di me così prende su la mia cartella, la scorre per finire con “Una sola valvola funziona e al venti per cento. Non c’è altro da fare che operare e al più presto.”
Dicevo dei vari esami che i miei oncologi, Professori esimi e specializzandi simpatici, mi mandavano continuamente a fare anche per non perde l’assiduità con quel piacevole albergo, e per dire del mio modo di vivere la situazione in cui mi ero trovato immerso e per dire del rapporto che instauravo con medici e infermieri, capita che mi spediscono a fare una visita neurologica per metter a fuoco il tremore che talvolta mi prende al braccio sinistro.
Loro graziosa solerzia che mi concede di incontrare una neurologa sui 25 30, alta, dal bel sorriso e evidentemente con due seni grandiosi.
Mi fa mettere in slip, mi smartella varie parti del corpo, poi mi chiede di camminare un piede davanti all’altro tenendo gli occhi chiusi e le braccia in alto. Perdo l’equilibrio al terzo passo e sto per cadere ma lei mi abbraccia tenendomi in piedi.
“Si rende conto che mi tocca fare per toccarle il seno?” le sorrido. Sorride anche lei e capita un altro giorno di incontrarci nell’ingresso e ridendo andarci a prendere un caffè insieme.
Con molti di quelli in camice bianco o verde o celestino in sette anni si è creato un rapporto di simpatia; di stima da parte mia. Sono arrivato a domandare a uno di loro se fossero pagati meglio che negli altri ospedali romani dopo che ero andato a far visita a due amici ricoverati in due differenti strutture dove non avevo potuto evitare di fare un paragone tra la gente che lavorava lì, San Camillo e Policlinico, rispetto ai professionisti del mio ospedale.
Sempre l’ironia di quella gran puttana che è la vita: i due amici che ero andato a trovare morirono di infezioni da sala operatoria nello spazio di un mese. Erano i due che si litigavano la mia libreria e la mia lampada.
Professionali, disponibili, sempre cortesi quelli del Sant’Andrea ma di andarmi a rinchiudere lì e farmi aprire il cuore non avevo alcuna intenzione.
Mi trascinavo completo di bastone anche dentro casa; mi ero persino arreso al Kindle dato che perfino un libro di duecento pagine appoggiato sullo stomaco leggendo a letto pesava troppo.
Vegetavo finché una sera non so che mi prese ma non riuscivo più a spingere aria nei polmoni. Brevi sforzi, convulsi quasi. Avvertii mio figlio ormai sedicenne e chiamai un’ambulanza.
Al pronto soccorso la stessa atmosfera dantesca che avevo scoperto la prima e unica volta in cui c’ero stato.
Alla mia destra nella calca di barelle, lettini e sedie a rotelle ammonticchiati, una vecchina si ostinava a chiedermi se avevo visto il suo ombrello che era sicura di avere quando era arrivata; alla mia sinistra si risolveva nel frattempo il caso della ragazza che non sapeva il suo nome, perché arrivava il fidanzato avvertendo che era caduta battendo la testa.
In tutto questo quei medici e infermieri che si muovevano ancora sorprendendomi per la loro capacità di operare in quel girone.
Quella che mi sembro essere la capa di turno, saranno state le 22, mi visitò, diede una scorsa alla mia cartella clinica apparsa sul computer e rivolgendosi a qualcuno accanto a lei disse: “Bisogna ricoverarlo. Senti Cardiochirurgia o Scompenso Cardiaco”.
Mi fece una iniezione e io le chiesi quando sarei stato ricoverato. “Fra un’ora o domani.”
Domani? In quell’antro? Scompenso Cardiaco e mi venne in mente De Biase l’amico di Sever e primario di quel reparto.
“Ti mando a prendere”, mi rispose il professore che, sempre fortunatamente era di turno in ospedale.
Così in cinque minuti arrivarono due medici che chiesero alla capa dove fosse Cino.
“E’ questo qui”, rispose voltando la testa verso di me e indicandomi.
“Lo portiamo in reparto con noi”, e a me: “Può stare su una sedia a rotelle? La vado a cercare.”
Li ce ne fu una divertente perché ero galvanizzato dalla risoluzione che mi avrebbe evitato l’attesa dentro il Pronto Soccorso e così quando rimasti soli la dottoressa si volse a me e mi fece: “Certo lei è proprio raccomandato!” “No,” risposi, “sono Pino Cino”. Mi fissò perplessa e si allontanò.
Cominciò così l’iter che mi avrebbe portato all’operazione al cuore.
“Verrai addormentato. Poi in sala operatoria tireranno fuori il cuore e ci lavoreranno su; nel frattempo avrai una macchina attaccata ai polmoni.” Questo mi spiegò più d’uno o giù di lì.
Comunque non ero preoccupato. Accettavo quel che succedeva intorno a me tra un esame e l’altro, le visite degli amici e cominciavo a tessere un rapporto col personale del reparto. L’infermiere tifoso dell’Inter, l’infermiera giovane, bella e con un bambino piccolo a casa. Lo specializzando calabrese che prendevo continuamente in giro per l’accento e la presunzione calabra.
Ero ben lucido e capitò anche che le mie vene, o forse erano arterie, presentassero dei problemi aggiuntivi così che fu convocato un ennesimo luminare mago di non so che particolare esame.
Sembra fosse famoso perché quando mi portarono in una stanza dove una macchina mai vista prima ci aspettava, arrivarono pure una decina di specializzandi, studenti, infermieri e i cardiochirurghi che mi seguivano.
Il professore, preso il proscenio disse qualcosa e io gli feci: “Romano doc?”
“Non si permetta. Io sono tiburtino. Di Tivoli.” Ma sorrideva.
Alle mie spalle due studenti confabulavano: “Perché ha spostato l’elettrodo rosso e l’ha messo al posto del verde?”
“Perché se lui avrebbe messo quello giallo gli avrebbe dato tutta un’altra risposta.”
“Che liceo hai fatto?” intervenni io rivolto a quello che aveva appena parlato.
“Scientifico”.
“Può capitare; ma se leggessi qualche libro non sarebbe male.”
Il professore che continuava l’esame passandomi un rullo cosparso di gel sul petto sorrise, poi terminato il tutto si volse a uno dei chirurghi e gli disse: “Vai. Taglia e cuci.”
Taglia e cuci lasciamolo a Totò perché in realtà un paio di giorni dopo mi portarono in sala operatoria che io non vidi perché ci entrai bello che addormentato, mi incisero un ampia croce sul petto, ci infilarono una sorta di cric, seppi in seguito, che aprì lo sterno per tirar fuori il fottuto cuore e procedere.
Nel frattempo, tutte informazioni riportate, il simpatico calabrese andava a prelevare la vena safena dalla gamba sinistra per sostituire tre pezzi di vene, arterie? beata ignoranza, dentro il cuore.
Sapevo che se tutto fosse andato bene poi mi sarebbe toccata Rianimazione e lì mi sembra che mi risvegliai accudito e riverito tra i sorrisi di infermiere e medici.
“Hai visto che ti ho fatto?” mi disse il calabrese. “Quando ho inciso per prelevare la safena ho girato intorno per non rovinarti il tatuaggio che hai sulla gamba.”
Cortesie del Santandrea. Mettiamoci anche quella di Lucia che mentre puliva il pavimento vedendomi scosso dalla tosse mi consigliò di raccogliere le spalle incrociando le braccia.
Franca Cino, Emanuela Limiti e altri 43
Commenti: 28
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  • Emanuela Limiti

    Bravo Cinuccio ma lo scherzo di Gippone ancora me lo ricordo 😡😃
  • Simona Savioli

    I tuoi racconti così dettagliati e precisi mi fanno rivivere da lontano quello che hai vissuto.
  • Paolo Paci

    una Odissea ospedaliera raccontata a sangue freddo.

    complimenti

    al tuo angelo custodente che ha fatto gli straordinari senza lamentarsi…

  • Alessandro Loretti

    La Vita ha le sue maniere, Compagno. E spesso si assomigliano. Forza
  • John Flores

    non descrivi il tatuaggio sulla gamba, cos’é? Rimettiti in piena salute al piu presto…
  • Roberta Orecchia

    Scrivi da DIO !!! 👍 è un piacere leggerti ciao Pino 💋
    • Pino Cino

      ciao. hai letto una puntata in cui si parlava del tuo babbo?
      • Roberta Orecchia

        si … Goa ecc … sei veramente forte… fluido intenso e insomma bravissimo. Mi dispiace molto sapere che non stai bene ….
  • Eddi Vincenzi

    Bello Pino ti si può solo volere bene. Quello che ti sta avvenendo non te lo meriti. Sei come quello della barzelletta. Due amici si incontrano. Uno dei due è triste e preoccupato. L’altro gli chiede perché e cosa ha. Sono appena uscito dall’ospedale e mi hanno detto? Che ho? Un saggittario, anzi no un gemelli, no neanche quello. Alche l’amico lo interrompe e gli dice . Non è che hai il cancro? Ah sì, si quello.

    Alessandra Vassallo

    Un viaggio profondo e lucido. Si legge con passione! Forte
  • Abigail Garfagnoli

    Wow, Pino. Un odissea.
    Ti mando un abbraccio forte
  • Emanuela Rossi

    Sei un combattente. Questa è la vita dell’altro Pino, quello che di fronte alle avversità fisiche, e papà single, diventa un leone e combatte. Chapeaux, Pino.

    Anche se il tema del racconto potrebbe essere ostico , si legge con grande piacere la tua storia. Io ho avuto un infarto due anni fa, diagnosticato proprio al Sant’Andrea, c’ero andata perchè da giorni avevo dei dolori fortissimi al petto ogni notte, la dott.ssa mi aveva messo paura e così per caso, scoprirono che avevo un infarto in corso. Ricoverata al pronto soccorso in corridoio perchè non c’era posto in rianimazione, venni, durante la notte prelevata e portata al santo spirito, dove mi dissero, dopo una coronorografia, che avrei dovuto operarmi o sarei morta entro due mesi. Anche io sono stata squartata ed ora ho 4 bypass. Sono le coronarie, arterie chiuse, non arrivava sangue al cuore, né ossigeno. Quindi, questa parte mi è famigliare. Siamo qui per caso e finché si può godiamocela. Certo sta pandemia ci sta rendendo noioso questo pezzo di vita recuperata. Ma leggerti è un gran piacere e

    auguri

    a noi.

  • Antonia Bonelli Fusco

    Ti leggo sempre con piacere.ciao Pino
  • Lorenza Lodini

    Sei bravissimo nel raccontare, davvero tanto. Materiale prezioso il tuo. 👏❤️
  • Alessandro Antonaroli

    Grazie per questa vivisezione della tua vita in cui metti a nudo i tuoi organi per mostrarci il tuo Spirito.♥️
  • Stefano E. Stef

    È sempre un piacere leggerti
  • Mara Italiani

    Che storie, che coraggio e che lucidità.

    Congratulazioni

    . Fai si che il “rottame” non arrugginisca. Finalmente chiarezza, gli amici ai quali chiedevo di te sempre molto vaghi. Adesso capisco il perché, visto le complessità narrate. Bacio caro.

  • Crihiris Bucci

    Quello che mi colpisce nel tuo racconto è quella familiare testa dura che fa da pilastro alla capacità di guardare la vita da altre prospettive. Quasi a non volere guardare con troppa serietà gli eventi, anche quelli più drammatici. E a trovare del bello nelle persone e a pensare di aver avuto una vera fortuna in ogni momento di difficoltà. Mi hai ricordato il mio atteggiamento dopo un intervento: appena riaperti gli occhi ringraziarvo tutto il personale per la cura e attenzione e ci credevo davvero in quello che gli dicevo!Mi dispiace non poterti vedere di persona! Seguo i tuoi racconti con grandissimo piacere 💓
  • Claudia Ferrari

    grande Stefano…. ricordo un guanto per lavare i piatti infilato fra le cosce sul tavolo da cucina e una diagnosi che mi ha fatto capire perché sanguinavo come le cascate di Iguaçu!!! te lo ricordi Pino Cino, a Mykonos?
  • Margherita Crispy

    la tua vita è un romanzo, le tue vite, intensissime, ma quanti sei? the one and only Pino Cino
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