BORIS
Caracas 1976
Boris me lo aveva presentato Alessandra pochi giorni dopo il mio arrivo a Caracas, al Gran Caffè di Sabana Grande, ritrovo di immigrati italiani jn Venezuela, quelli storici, arrivati verso i primi degli anni ’50 approfittando del governo corrotto militare di Perez Jimenez, e gli ultimi arrivati che stavano approfittando del governo corrotto del social democratico Andres Perez. In quegli anni Venezuela era ricca e democratica, i soldi del petrolio erano ovunque e filtravano attraverso le maglie della societa’ fino a raggiungere le classi piu’ basse, anche se per loro non rimanevano che gli spicci, era sempre qualcosa.
Ogni tanto Boris faceva dei lavoretti perun certo Vannetti, un toscano con un passato losco di imbrogli, truffe e contrabbandi che alla fine si era rifugiato in Venezuela, che lui a ragione definiva “L’ultimo scoglio”. Vannetti aveva un negozietto di “oggetti d’arte e antiquariato” che gli serviva da schermo per piccoli imbrogli, incetta di refurtive, scambi illeciti, denaro falso, ma non droga. Come molti di statura bassa anche lui aveva l’animo del capo banda e nel suo negozio girava continuamente una gran varieta’ di ceffi.
Alessandra era la sua segretaria, il cui compito principale era quello di rendere accogliente quel covo di ladri di serie B semplicemente con la sua presenza femminile, attivita’ in cui era bravissima.
Boris era di pochi scrupoli cosi’ una sera gli chiesi se poteva procurarmi un “ladrillo”. Il “Ladrillo” nel gergo dei marijuaneros era la unita’ di misura di 480 grammi di erba che veniva pressata a forma di mattone=ladrillo. “Claro qui si”. Ci saremmo visti la sera alle 7:00.
Naturalmente come tutti a Caracas Boris arrivo’ parecchio in ritardo, ci bevemmo una birra al bar Gaeta e ci avviammo a piedi verso la sua macchina. Girammo a destra, traversammo Plaza Las Delicias e dopo un paio di isolati Boris disse “Hemos llegado” e a me caddero le braccia. Eravamo davanti ad un Chevy Camaro giallo canarino del 1970 che attirava attenzione da ogni centimetro quadrato di vernice, una macchina di quelle in cui assolutamente non puoi passare inosservato, l’antitesi del mezzo di trasporto da usare quando si va a comprare un ladrillo di marijuana. Mentre pensavo queste cose Boris era gia’ in macchina e aveva messo in moto. Ormai ero in ballo.
Boris era di buon umore, accese la radio e la macchina si riempi’ con le note di una salsa al cui ritmo imboccammo Avenida Libertador.
La salsa e’ una musica appassionante con la quale e’ impossibile rimanere fermi, spesso le parole sono assolutamente cretine, ma il ritmo e gli musica sono coinvolgenti e Boris piggio’ sull’acceleratore. Andammo cosi’ per un po’, arrivammo al Silencio , girammo verso la Avenida Urdaneta e passammo davanti alla centrale della PTJ (Cuerpo Técnico de Policía Judicial ). A quel punto chiesi a Boris dove stavamo andando.
“Vamos a Gato Negro”, rispose e i miei campanelli di allarme cominciarono a suonare con insistenza. Non solo eravamo nella macchina meno indicata per una transizione illegale ma stavamo andando a farla nel quartiere dove assolutamente non bisogna andare a fare una cosa del genere. Pensai che anche l’ora non era adatta era buio e di solito queste cose si facevano di giorno perche’ la notte ogni movimento diventa sospetto, ma anche nella credenza popolare di notte escono gli “espantos”, gli spiriti. Eppoi solo il nome era un programma se fosse stato un bel posto non si sarebbe chiamato Gato Negro ma Bello Monte. Infatti Gato Negro era uno dei tanti quartieri abusivi che circondavano la citta’ occupando tutte le colline intorno. In Brasile le chiamano favelas, a Caracas ranchitos. Erano abitazioni precarie costruite lungo i pendii delle colline con materiali trovati o rubati. Erano alveari di poverta’ e ignoranza popolati dalla gente dei campi che non possedeva la terra ed erano fuggiti per necessita’ nelle metropoli a milioni dove non avevano le capacita’ per fare dei lavori decenti. Le nuove generazioni cresciute nei ranchos erano meno accondiscendenti a farsi sfruttare e piu’ portati alla delinquenza con o senza violenza. La vita non e’ mai valsa gran che da quelle parti.
Intanto avevamo imboccato la Avenida Sucre e Boris disse che mancava poco infatti rallento’ prese Calle El Caribe e poi chissa’ come entro’ in una strada in salita strettissima fra casupole con il tetto di lamiera e si fermo’ in uno slargo in cima alla collina. Dalla piazzetta partivano stradine in discesa che entravano in un labirinto buio di case e casette fatte con mezzi di fortuna.
“Esperame aqui, chico”, disse e spari’ in una delle stradine e io mi trovai solo con il Camaro. Uscii e mi appoggiai alla macchina. Poco a poco la piazzetta comincio’ a popolarsi di gente del posto, alcuni arrivavano a piedi, altri, sopratutto le donne, arrivavano con i “carritos” , camioncini, sopratutto Toyota, che facevano servizio nei quartieri isolati. La piazzetta era illuminata pochissimo e si vedevano giu’ in fondo le luci di Caracas, pensai che non doveva poi essere tanto male vivere lassu’, considerando che puoi anche avere un albero di banane, le galline, i mangos crescono ovunque e non fa mai freddo. Mentre pensavo a queste cose arrivo’ un ennesimo pick up pieno di uomini che scesero velocissimi e armati di mitra e manganelli e cominciarono a gridare e spingere e manganellare e minacciare la gente. Con i manici dei mitra spinsero tutti contro un muro. “Adesso tocca a me”, pensai, “hanno preso tutti manco solo io “ Infatti rimanevo solo io in piedi accanto al Camaro giallo mentre i poliziotti in borghese continuavano a gridare e manganellare finche’ arrivo’ un altro pick up, caricarono la gente e ripartirono di corsa come erano arrivati. Fine della retata ed io non ero nella rete. Passo’ un periodo di calma in cui ebbi tempo di riprendermi e mi persi un po’ a guardare le stelle cercando di dare un senso a quella cosa. Mi interruppe Boris, “Vamos chico” e sali’ in macchina.
Una volta usciti da Gato Negro e imboccata la Avenida Sucre mi rilassai, la radio trasmetteva “la niña de la buena sociedad”, una salsa che parlava di una ragazza di famiglia per bene che fugge con un trombettista senza soldi. “ La marijuana la tienes?”, chiesi finalmente a Boris. “Negativo, pana. Mi primo ya no tenia…”. OK niente marijuana, il cugino non e aveva piu’. C’era qualcosa da imparare da quella storia?
In tutti questi anni ripensandoci non ho mai capito perche’ i poliziotti della Guardia Nacional non mi avessero caricato come tutti quelli intorno a me. Forse ero diventato invisibile.

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Una risposta
concordo con Claudia