CARACAS 1976
Il mio passaporto aveva una foto ridicola fatta in una macchinetta automatica e rilasciato dalla Questura di Sorano, in provincia di Grosseto, dove ero residente all’epoca della mia partenza e scritto a mano con calligrafia incerta e all’antica.
Come fossi finito a Sorano a fare il pecoraio dopo il viaggio in Afghanistan e’ una storia che appartiene ad un altra serie di articoli non ancora scritti. Il fatto e’ che all’epoca mi ero immedesimato nel contadino stile primi novecento, con baffoni, panciotto nero e capelli sul lungo ma non troppo che per la foto avevo raccolto all’indietro in un improbabile codino e mi ero dato una pettinata frettolosa per occultarlo, intento comunque mal riuscito. Avevo indossato una camicia bianca non stirata e messo al collo un foulard blu a modo di cravatta. Sembrava una specie di fiocco anarchico. In realta’ io stesso somigliavo a Sacco, quello di Sacco e Vanzetti, gli anarchici italiani ingiustiziati sulla sedia elettrica negli USA nel 1927.
Il 19 Gennaio del ’76 sbarcavo a Caracas e i doganieri venezuelani controllarono a lungo quel passaporto. Allora sapevo quasi niente del Venezuela se non che molti italiani vi erano emigrati negli anni ’50. Non sapevo che il Venezuela aveva da poco nazionalizzato il petrolio e il paese stava conoscendo un periodo di grande benessere cosa che aveva scatenato una nuova ondata immigratoria. Povera gente venuta da altri paesi dell’America Latina in cerca di lavoro o in fuga dalle dittature militari dell’Argentina (Videla) e del Cile (Pinochet), ma anche molti imbroglioni in cerca di affari facili o di riciclare soldi illegali provenienti un po’ da tutto il mondo.
Anche il Venezuela nel suo recente passato, aveva avuto movimenti rivoluzionari di stile cubano, con colpi di mano ed insurrezioni armate, ma poi le acque si erano calmate e regnava una democrazia di tipo social democratico dove la corruzione era uno stile di vita ed i soldi filtravano attraverso tutte le maglie della societa’. “Se non fai i soldi quando sei al potere sei un cretino”, piu’ o meno questa era la morale vigente. Ancora rimaneva qualche gruppo di ostinati guerriglieri che viveva nella selva. Avevano da poco rapito un ingegnere petroliero americano, William Niehous, che tennero prigioniero per tre anni finche’ fu liberato dall’esercito.
La mia apparenza deve aver suscitato nei doganieri sospetti che per ignoranza non avevo previsto. I miei bagagli furono rovistati e mi scontrai per la prima volta, ma non l’ultima, con l’abuso di autorita’ stile sud americano. Ci fu un risveglio alla realta’. La cosa duro’ una mezz’ora ma non trovarono quel che avrebbero potuto trovare… Mi fu detto poi che i doganieri aspettavano solo che io offrissi dei soldi per lasciarmi andare e che visto che non abboccavo (unicamente per ignoranza) alla fine avevano deciso di non perdere piu’ tempo con me e diretto le loro attenzioni verso qualche altro pollo da spennare. Mi diedero un permesso di soggiorno turistico di 21 giorni. Rimasi nove anni.
I primi mesi a Caracas andai a vivere in una casa chiamata La Urupagua che Alessandra aveva preso in affitto insieme a due amici spagnoli, Antonio, detto Pirata, e Maria, c’era anche una coppia di spagnoli provenienti dal Nicaragua in cerca di lavoro, Alejandro e Cecilia, e Massimino, uno spagnolo che veniva ad insegnare all’Universita’ di Caracas. Il posto era isolato quasi in montagna, una oasi a circa un’ora dalla citta’ e per spostarsi avevano comprato una vecchia Ford Falcon grigia che spesso ci creava problemi sulla Panamericana dove sfrecciavano camion e camionette e automobili di tutti i tipi guidati da autisti alcolizzati. Con la nazionalizzazione del petrolio ed il prezzo di 15 centesimi al litro della benzina, sulle strade c’era sempre traffico e incidenti. Spesso la Ford Falcon aveva problemi meccanici ma il giorno in cui perdemmo una ruota la polizia ci disse che non voleva piu’ vederci sulla Panamericana.
Alessandra aveva cominciato a vendere disegni per tessuti. Con la nuova economia erano sorte in citta’ diverse fabbriche tessili alcune in mano agli Armeni, altre ai Libanesi cristiani ortodossi. La Urupagua era stata trasformata in studio grafico dove Alessandra cercava di farci capire come i disegni per tessuti dovevano essere fatti in modo che si potessero ripetere in fase di stampa. Poi Alessandra andava negli uffici delle fabbriche a vendere la produzione. Per un po’ di tempo vivemmo di questo. Dietro la casa c’era una collina dove ogni tanto ma non sempre si trovavano i funghi allucinogeni. Piccoli funghetti che crescevano sulle cacche di vacca che dopo qualche minuto dall’averli colti mostravano la psilocibina diventando bluastri. Si pulivano ben bene e si mangiavano sul posto. Dietro la collina viveva una donna che vendeva marijuana e ogni tanto andavamo a trovarla. Un giorno durante una di queste visite vidi arrivare a tutta velocita’ una camionetta piena di poliziotti. Mi gettai giu’ per il bosco e rimasi nascosto ansimante e tutto graffiato per un’ora o piu’. Ma la polizia non veniva per noi, aveva proseguito senza fermarsi e tutti si chiedevano che fine avessi fatto.
A prima vista la vita di Caracas era una vita internazionale. Tutto veniva importato e si trovava di tutto. I cinema proiettavano gli ultimi films , c’era un grande Festival Internazionale di Teatro, un festival del Cine Super8, un anno vinsi un premio anch’io con il documentario, Playa, realizzato con Alessandra Vassallo e Fernando Ibosky. I caffe’ sulla Avenida Principale di Sabana Grande erano sempre pieni di una variata fauna umana fatta di immigrati, affaristi, mafiosi, dottori, politici e giovani donne in Hot Pants, grande moda del momento. Un po’ ovunque per le strade e nei taxi e sugli autobus si sentiva suonare la Salsa di Oscar de Leon, di Ruben Blades e delle Fania All Stars e anche la Sonora Matancera Cubana. Il centro di questa vita sociale era il Caffe’ Roma dove, oltre agli immigrati italiani, si riunivano intellettuali ed artisti. I grandi centri commerciali somigliavano a quelli di Miami ed erano pieni di negozi di tutti i tipi. Ma intorno a questa citta’ moderna e consumista piena di luci al neon c’era un’altra citta’ parallela cresciuta disordinatamente, quasi per caso, fatta di architetture traballanti ed incerte, palafitte in collina appoggiate sul nulla. Interi quartieri di vite provvisorie, gente senza terra venuta da tutto il paese, senza arte ne’ parte cercando di sopravvivere. Queste abitazioni venivano chiamate “Ranchos” o “Ranchitos”, quartieri intricati e malsani dove forse era facile entrare ma certamente difficile uscire. Le due citta’ erano spesso separate da una autostrada, frontiera permeabile fra la poverta’ e la ricchezza.
Il visto turistico di 21 giorni scadde e andai a farlo rinnovare alla Policia de Extranjeria (polizia stranieri). Il commissario, o chi per lui, studio’ il mio passaporto e poi sentenzio’ che non avrebbe rinnovato il visto, che si sarebbe tenuto il mio passaporto finche’ non fossi tornato con un biglietto aereo di uscita dal Venezuela e che era meglio che mi sbrigassi. Il mio passaporto fini’ nel suo cassetto. Cosi’ non solo ero nel paese illegalmente, ma anche senza documenti.
Passarono diversi mesi finche’ un giorno il nostro padrone di casa, Osiel, un architetto venezuelano di origini basche, ci propose di andare con lui a visitare una terra, circa 400 ettari, che aveva comprato nello stato Falcon, sul Mare dei Caraibi. La sua intenzione era di farne un allevamento di bovini da carne, cosi’ come altri suoi vicini avevano gia’ fatto. Sopratutto gli americani del King Ranch, ma anche Fermin, un emigrato spagnolo suo amico che aveva comprato la terra confinante e gia’ vendeva bovini con buon profitto. Una mattina partimmo molto presto con Osiel sulla sua Chrysler blu alla volta della Felicidad, cosi’ si chiamava la sua proprieta’. “Una buona occasione per cambiare aria” pensai ma non immaginavo che non solo l’aria ma anche la mia vita sarebbe cambiata.
Foto 1: dal mio passaporto – 2: la Urupagua. Pirata, Alessandra ed io – 3: Paesaggio Urbano – Caracas
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