CAPODANNO AI TROPICI 1978 serie Tropical

Capodanno ai tropici 1978
Verso i primi di Dicembre del ’78 Jaques Lizot, un antropologo francese allievo di Levi-Strauss che da 15 anni viveva con una tribu’ di indiani Yanomamo in una lingua di terra nella giungla amazzonica dove si toccano Venezuela, Colombia e Brasile, busso’ alla mia porta alle sei del pomeriggio. Me lo trovai sull’uscio alto, magro con la solita barba lunga, scapigliato e allampanato con due occhiaie profonde che sembrava non avesse dormito da qualche giorno. Portava una camicia a scacchettoni, pantaloni chiari macchiati di fango e vecchi sandali riparati innumerevoli volte nel corso del tempo. Lizot mi era stato presentato da un comune amico, un antropologo spagnolo che aveva sposato una venezuelana e stava vivendo a Caracas. Non potendo per ragioni di spazio ospitarlo lui stesso aveva chiesto a me di prestargli una stanza nella villetta dove stavo vivendo quando, per necessita’ burocratiche, doveva lasciare la giungla del Rio Negro e venire per qualche giorno nella civilta’ di Caracas. La burocrazia era necessaria per la creazione di un grande Parco Naturale, in collaborazione con il Brasile, da riservare agli Yanomamo. Il progetto era cominciato da poco e i carteggi e permessi erano lenti da ottenere. (Finalmente il Parco Yanomamo fu realizzato negli anni 90 ma ci sono ancora oggi molti problemi di invasione del territorio da parte dei “garimpeiros” cercatori d’oro senza scrupoli.)
Per venire a Caracas dallo Shabono, la grande casa comune dove viveva con la tribu’, Lizot doveva prima attraversare la giungla a piedi fino ad un fiume, prendere una canoa e raggiungere il grande Rio Negro, affluente dell’Amazonia. Da li’ , navigando diverse ore contro corrente con una “lancha” a motore dell’esercito venezuelano arrivava a San Carlos de Rio Negro dove doveva prendere una “avioneta”, un aereo Chessna , per Puerto Ayacucho e da li’ finalmente un volo per Caracas. Ma la sua faccia stanca aveva una ulteriore ragione di essere. Quando era arrivato alla postazione militare sul Rio Negro per prendere la barca a motore, i militari avevano finito la benzina e dovette aspettare tre giorni perche’ arrivassero i rifornimenti. Sulla sponda opposta del fiume c’e’ la Colombia e regolarmente i militari venezuelani rivendevano la benzina del governo ai Colombiani, per trasformarla in Agua Ardiente, restando sempre senza fino all’arrivo del prossimo rifornimento.
Lizot arrivava senza farsi annunciare e questa era la sua terza visita ma c’era qualcosa di diverso dalle sue visite precedenti: questa volta era accompagnato da due giovani indios Yanomamo che mi guardavano con curiosita’ con i loro occhi a mandorla appena visibili sotto la frangetta orizzontale che finiva al limite delle sopracciglie. Alle orecchie, a mo’ di orecchini, avevano piume di pappagallo gialle e verdi . Uno di loro, forse il piu’ grande, aveva la faccia trafitta da aghi di legno perfettamente levigati. Un ago entrava da un lato della bocca ed usciva dall’altro e tre altri aghi erano simmetricamente conficcati sul mento. Ai piedi avevano delle vecchie infradito di gomma. Appena entrati i due Yanomamo andarono direttamente in giardino dove c’erano delle amache, si accomodarono e si abbandonarono al pigro dondolio chiacchierando a voce bassissima. Lizot ando’ a farsi una doccia e io preparai qualcosa da mangiare. “Che mangeranno gli indios?”                                                                           JAQUES LIZOT
La cena fu a base di frittata, riso, insalata con i pomodori e il casabe che avevano portato loro, che e’ un pane croccante rotondo, piatto come un disco e bianco come il latte, fatto con la farina della radice di Yuca, una pianta che cresce nella giungla e che e’ il nutrimento base degli Yanomamo. Lizot e io ci sedemmo al tavolo e gli Yanomamo presero i loro piatti e se ne andarono a mangiare con le mani seduti sulle amache con una familiarita’ di gesto che sembrava fossero a casa loro. “ Di fatti, pensai, l’amaca l’hanno inventata loro…”
Lizot aveva in mente un progetto ambizioso=. Considerando che prima o poi gli indiani dell’Amazzonia dovranno venire in contatto diretto e non sporadico con i bianchi, la formazione di un Parco Yanomamo non era sufficiente e bisognava che gli Yanomamo sapessero chi e’ l’uomo bianco, che cosa e’ la “civilizzazione”, era importante che fossero preparati allo shock culturale che ne sarebbe seguito. Per fare cio’ si era portato dietro i due giovani indios che per la prima volta in vita loro uscivano dal verde della foresta, avevano preso due aerei e si erano ritrovati nel cemento armato dell’aeroporto internazionale di Maiquetia con quel bellissimo pavimento optical allucinante di Cruz-Diez e avevano preso un taxi per
arrivare a casa mia a Caracas. Al ritorno avrebbero raccontato le loro esperienze e parlato di noi e del nostro mondo. Il mio giardinetto sarebbe stato casa loro durante i giorni seguenti, era quello che piu’ somigliava alla selva. C’erano degli alberi, un po’ di verde, piante di Trinitarie di diversi colori, delle amache e perfino qualche animale di passaggio, pappagalli che andavano e venivano e una mamma opossum che ogni tanto, la sera, appariva con tutti i suoi piccoli in fila indiana sul groppone e sulla coda. Jaques Lizot, oggi ottantenne, vive in Francia e ha scritto vari libri sugli Yanomamo ed anche un vocabolario Spagnolo/Yanomamo, parlava perfettamente la loro lingua e si occupava delle relazioni sociali fra di noi. Ma il progetto non si fermava a Caracas. L’idea di Lizot era portare gli Yanomamo a Parigi alla Académie Française di cui il suo maestro Levy Strauss, l’autore di Tristes Tropicos, era membro. I francesi pagavano le spese ma Lizot doveva ottenere i permessi per far uscire gli Yanomamo dal paese. Ovviamente non esisteva un censimento degli indiani, non c’era un indirizzo, una data di nascita, insomma gli indiani come al solito erano invisibili e di proprieta’ del Governo. Quindi niente passaporti.
Ci vollero diversi giorni andando da un ufficio all’altro per ottenere finalmente il permesso e mettere insieme una specie di documento ufficiale, ma solo per uno Yanomamo, l’altro, il piu’ giovane, doveva rimanere a Caracas… a casa mia, per un paio di settimane.
Quella sera Lizot mi fece un breve dizionario di parole essenziali che rammarico aver perduto, con cui comunicare. Parole tipo fame, carne, pesce, sete, freddo, contento, triste, male, paura… insomma nomi di cibo e cose del genere e il giorno dopo parti’. I primi giorni di convivenza filarono lisci, una volta capito che il cibo era nel frigo e afferrato l’uso del bagno e della doccia per il resto il mio ospite viveva in giardino. Comunicavamo piu’ che altro a gesti. Si chiamava Kaomawe e gli dissi subito che lo avrei chiamato Kao e lui comincio’ a ridere, e rideva ogni volta che lo chiamavo. Seppi poi che il Kao, o Kaomare, e’ un uccello che si nutre di serpenti. Chissa’ perche’ lo trovava molto comico. Non aveva il concetto di anni ma avra’ avuto sedici o diciassette anni. Gli piaceva moltissimo il panettone ma si vergognava e lo mangiava di nascosto.                                                                  KAO
In quei giorni io avevo molto lavoro. Stavo fotografando la costruzione della Metropolitana di Caracas per conto di varie compagnie, ognuna delle quali costruiva una stazione diversa e si collegavano fra di loro con tunnel scavati con una macchina enorme, una specie di frullatore sotterraneo chiamato “el Topo”, che non sarebbe un topo ma in spagnolo una Talpa. Lavoravo anche per un paio di riviste e case discografiche e clienti privati… insomma avevo poco tempo da dedicare a Kao. Uscivo la mattina e tornavo la sera presumendo che Kao stesse bene. Una mattina prima di uscire lo vidi triste, una parola che avevo chiesto appositamente di aggiungere al vocabolario, e glielo chiesi. “No”, menti’ e capii che quello che per me era un giardinetto tranquillo, una oasi in mezzo al casino disordinato di Caracas, rispetto alla sua selva amazzonica quella era una prigione con le mura verdi che non potevano essere oltrepassate. Non potevo lasciarlo da solo un altro giorno cosi’ gli indicai la Volkswagen e lui ci salto’ subito dentro. Andando verso il centro guardavo Kao con la coda nell’occhio e in mezzo al traffico, i lavori in corso, gli autobus scassati pieni di gente, le motociclette che schizzavano da tutte le parti il fumo delle marmitte e il caldo, mi chiedevo cosa stesse pensando quella mente fino a pochi giorni prima praticamente vergine in un paradiso terrestre dove gli unici rumori sono i canti degli uccelli ed ora catapultata a confrontarsi con una realta’ radicalmente opposta, fatta di ferro, vetro, cemento e scorie industriali. La mia prima fermata era un laboratorio fotografico, andavo a ritirare delle foto e lasciare dei rullini. Kao era uscito scalzo e con le penne di pappagallo alle orecchie. La signora del laboratorio, una immigrata tedesca di mezza eta’, al vederlo si irrigidi’ e mi chiese cosa fosse Kao. “E’ un indiano Yanomamo” dissi e lei “ E’ pericoloso?”…
“Non so ma non preoccupi, non morde” risposi, ma la signora era nervosa e mi chiese di non farlo avvicinare. La cosa non andava, bisogna mimetizzarlo un po’. Quando fummo fuori gli dissi di togliersi le penne dalle orecchie e decisi di comprargli un paio di scarpe. Andammo al Centro Commerciale di Chacaito. Kao guardava da tutte le parti. Le luci al neon, le ragazze in Hot Pants, gli addobbi di natale, i pini importati dal Canada con la neve finta e le musichette cretine natalizie tipo Jingles Bells che uscivano da tutti i negozi . Rimase qualche minuto ad ammirare la vetrina della scarpe e poi scelse delle scarpe di gomma, senza lacci, quelle con gli elastici ai lati. Era molto contento con le sue nuove scarpe e mi chiese di
comprargliene due paia. La richiesta era strana ma acconsentii. Poi si fermo’ davanti ad un banco di occhiali da sole e scelse un paio tipo RayBan, anche li’ ne volle due paia. E cosi’ fu per il pettine, lo spazzolino da denti, il dentifricio e lo shampoo, che aveva imparato ad usare a casa mia. Alla fine gli chiesi perche’ di tutto due? “Perche’ quando turno a casa li scambio per un machete, una pentola ed altri oggetti”… Mica scemo pensai, e io pago. Quel pomeriggio andavo a fotografare i lavori di un tunnel che stava costruendo una compagnia italiana, la Vianini, tutti gli ingeneri e gli operai specializzati erano italiani. Kao venne con me e gli facevo portare le macchine fotografiche cosa che faceva con grande professionalita’. Era interessante vedere come imparava cose nuove e le metteva in pratica subito dimostrando una grande capacita’ di adattamento. Pero’ entrare con un trenino in un tunnel buio e sparire nel ventre della terra non fu facile per lui. Si vedeva preoccupatissimo e ripeteva la parola “Hekura” che poi seppi significa il mondo delle tenebre dove vivono gli spiriti degli uomini, degli animali e degli elementi come il vento , la pioggia e il fuoco. Comunque fu una avventura, perche’ arrivammo fino al mostro meccanico, il Topo, che stava divorando la terra seguendo le indicazioni dell’occhio di fuoco, un raggio laser rosso, mentre un carrello trasportatore portava via la terra macerata. Non un lavoro per chi soffre di claustrofobia. Feci le mie foto, Kao non si allontanava da me, temendo che qualche spirito si impadronisse di lui. Ripensandoci credo che per lui quella fu una esperienza terrificante ma liberatoria allo scoprire che gli spiriti non esistono.
Un giorno andammo allo Zoo ma li’ ne sapeva piu’ di me, conosceva i nomi di tutti i serpenti, uccelli, alligatori di tutti le scimmie, era una vera enciclopedia naturale. Alla gabbia delle scimmie disse che sono buone da mangiare lui le cacciava in due modi, con arco e frecce al curaro o con la cerbottana. E a gesti mi illustro’ come nascondersi ed attendere, perche’ le scimmie sono intelligenti, per poterle cacciare senza farsi vedere. Se pensavo, con la presunzione dell’uomo bianco, che Kao avrebbe imparato da me mi accorgevo del contrario, ero io che stavo imparando io da lui.
Finalmente arrivarono le vacanze di Natale e la mia amica Mary mi propose di andare una settimana a Puerto Maya e fare capodanno alla spiaggia. Kao non aveva mai visto il mare, cosi’ la mattina seguente con Mary, sua figlia di 5 anni Tabatita e Kao partimmo per le vacanze.                                                                          MARY
Puerto Maya non era facile da raggiungere. Come tanti villaggi di mare lungo la costa dei Caraibi Puerto Maya era una comunita’ discendente da schiavi fuggiti dalle piantagioni nel 18oo e rifugiatesi in strisce di terra chiuse fra le montagne ed il mare. In barca sarebbe stato piu’ facile, in macchina bisognava superare le montagne della Colonia Tovar e ridiscendere verso la costa. Al bivio della montagna ci fermo’ una pattuglia della Guardia Nacional. Solite rotture: documenti , patente etc documenti di tutti… Kao non aveva documenti e se lo volevano portare via. Kao non capiva ma era terrorizzato e anche io ero preoccupato. La vera storia di Kao era cosi’ assurda per loro che non poteva essere vera e se non era vera c’era qualcosa che non andava. Cominciarono a girare intorno alla Volkswagen come cercando qualcosa. Mary perse la pazienza, scese dalla macchina e da brava venezuelana tiro’ fuori un biglietto da 100 Bolivares e, incazzata, disse OK? La guardia disse OK e ce ne andammo. Brava le dissi, “Macche’ brava, se quelli non aspettavano altro! Glieli dovevi dare subito!”. ( Questo principio cercai di applicarlo a Roma anni dopo e quasi mi arrestavano per tentativo di corruzione… ma poi m’hanno lasciato andare gratis). Scendendo verso la costa attraversammo piantagioni di caffè, avogados , banane e cacao. Dovemmo anche guadare un paio di fiumi . Puerto Maya era un villaggio di forse 400 abitanti composto da una strada lungo la quale c’erano le case e le botteghe, altre case erano in ordine sparso, alcune in collina. All’entrata del villaggio c’era un enorme albero di Mango, un vero regalo degli Dei e secondo un mio amico un albero comunista che offre la sua ombra e dispensa dolci frutti che cadono quando sono maturi per chiunque abbia fame. All’altra estremita’ della strada c’era la spiaggetta rinchiusa fra due lunghi promontori scogliosi. Le barche da pesca venivano tirate sulla spiaggia e parcheggiate fra le palme altissime. Ci andavo spesso, Puerto Maya era il mio posto favorito, abitato esclusivamente da neri molto poveri ma sempre disposti a offrire almeno un caffe’ ed i pescatori quando tornavano mi regalavano qualche pesce per pranzo e io li aiutavo a scaricare il pesce dalla barche. Ci accampammo sulla spiaggia sotto le palme. Con dei mattoni costruimmo un fornello per fare il fuoco e legammo le amache alle palme.                                              TABATITA E IO
Kao avrebbe dormito in amaca e Mary la bambina e io in tenda. Non solo Kao non aveva mai visto il mare ma non aveva mai visto un uomo nero e i neri di Puerto Maya non avevano mai visto un indio della giungla. L’incontro fu dei piu’ interessanti. Kao capi’ subito che non c’era molta differenza fra lui e quella gente, anche loro vivevano sotto le palme, anche loro andavano in giro scalzi e con il machete, anche loro accendevano i fuochi per cucinare anche i loro bambini correvano liberi e nudi per la strada. Anche i neri di Puerto Maya ebbero le stesse considerazioni, vittime secolari di razzismo paternalista bianco, loro erano molto piu’ liberi dai pregiudizi che fiorivano nelle citta’. Kao si libero’ delle scarpe, si tolse la maglietta e i pantaloni e rimase in perizoma come nella giungla. Ando’ a lavarsi al mare rimanendo sorpreso dell’acqua salata. Poi prese i pennarelli di Tabatita e comincio’ a disegnarsi il corpo con serpentine di tutti i colori. Disegni ben precisi, serpentine e punti sulle gambe, sul viso, sul dorso. Per finire si rimise le penne di pappagallo alle orecchie. Kao era tornato ad essere Kao.
Andammo a fare un giro per il paese. La gente del luogo era incuriosita, una donna che conoscevo a cui compravo il pane di granturco e il caffe’, usci’ di casa e ci venne incontro. “Chi e’?” mi chiese e io spiegai tutta la storia e la donna si commosse “Poverino, e’ rimasto solo, quanto mi dispiace…” e poi lo invito’ a bere caffè con un dolce di banana.
Quella sera ci fu’ una processione di gente che veniva a vedere Kao. Le conversazioni si svolgevano in modo divertentissimo, timidamente all’inizio e con grandi risate alla fine. Non si capivano ma si toccavano a vicenda i capelli. Gli chiedevano cosa fossero i disegni che si era fatto sul corpo e lui diceva qualcosa in yanomamo e subito loro traducevano in spagnolo inventando “Serpenti! ha detto che sono serpenti!” Passo’ una gallina e tutti gridarono “Gallina… Gallina” e Kao traduceva in yanomamo “Kakkara, Kakkara”… e tutti ridevano “Kakkara… aahah si dice Kakkara…” Mandarono un ragazzino a cercare un gatto, intanto uno si era versato un bicchiere d’acqua, : “Agua agua “ diceva indicando in bicchiere e Kao rispondeva: “ Mau…Mau”. Poi arrivo’ il gatto e tutti cominciarono “E questo? non e’ un MauMau ?” ahah titti ridevano. Da quella sera Kao divenne un ospite famoso e tutti in paese erano gentili con lui, chi gli offriva una cosa chi un’altra perfino le ragazze della sua eta’ si avvicinavano e a fare conversazione e flirtare. Non sempre i pescatori uscivano a pescare ma la mattina del 31 tornarono con le barche piene e ci fu grande abbondanza di pesce per tutti e questa era una buona cosa perche’ era l’ultimo dell’anno, Noche Buena, e si preparavano i Sancochos de pescado, le minestre di pesce e le torte di granturco. Non molto d’altro perche’ il paese era povero e nelle botteghe non si trovava gran che ma si faceva quello che si poteva e si accumulavano birra, agua ardente e rum per passare la notte. Sopratutto si preparavano litri di spremuta di arancia con agua ardiente e cannella che chiamavano Canelazo. Bevanda pericolosa perche’ andava giu’ come agua fresca e non come agua ardiente.
Le donne durante tutto il giorno avevano cucinato, producendo torte di mais, tortillas, arepas, biscochos, zuppe di pesce e minestre di pollo. Anche il caffe’ era un elemento importante e si faceva facendo colare l’acqua bollente in un cono di tela pieno di caffe’. Lo chiamavano Cafe’ Guaioio.
Al tramonto si accese un grande fuoco sulla spiaggia e Tio Ugo, un pescatore sulla quarantina, fu incaricato di scaldare la pelle dei tamburi perche’ si tendesse al punto giusto per la tonalita’ giusta. Si trattava di tre grandi tamburi ognuno di tonalita’ differente che vennero messi davanti al fuoco, a una certa distanza, e Tio Ugo li andava carezzando e girando secondo il calore. Alcuni uomini portarono sulla spiaggia il Tambor, un tronco di albero cavo a cui era stata tolta la corteccia e a cui erano state scavate aperture che producevano suoni differenti. Il Tambor si poteva suonare in piu’ persone, sempre che sapessero coordinarsi nel percuotere il tronco.
A giudicare dal levigato del legno quel Tambor doveva essere stato usato da varie generazioni per le feste popolari e il rito del Tambor e’ quanto di piu’ vicino ci possa essere alla musica ancestrale africana importata dagli schiavi. Un ritmo suonato sulle coste del Venezuela, in Colombia e sulle coste di tutto il Centro America. Nelle isole dei Caraibi, da Cuba a Trinidad e sulle coste del Brasile. E’ il magico Tambor al cui suono si fanno magie e riti voodoo, il suono da cui provengono la Salsa Cubana, il Merengue Dominicano, la Cumbia Colombiana e la Samba del Brasil e potrei dire anche il Rock and Roll.
La spiaggia si stava popolando, chi veniva a mani vuote, chi con cose da mangiare e i piu’ con bottiglie di Canelazo e birra. Quando il livello etilico raggiunse il livello giusto si comincio’ a suonare il Tambor e i tre tamburi, che chiamavano Tumbas. Il primo colpo lo diede Gambao un pescatore con una gamba storta dalla nascita, ma comunque agilissimo ed il ritmo parti’ subito sfrenato e in un nulla tutti stavano ballando. Si formarono cerchi dei gente ed al centro si alternavano i ballerini. Il Tambor e’ una danza ad altissimo riferimento sessuale, spesso esplicito. Nel cerchio balla una coppia alla volta, forse due e chiunque puo’ spingere fuori un ballerino o una ballerina ed introdursi al suo posto. Gli scambi sono velocissimi come il ritmo e non durano piu’ di poche battute. Si balla muovendo dalla cinta in giu’, mentre il dorso deve rimanere immobile. Se non lo sai fare ti cacciano subito dal cerchio. Ogni tanto qualcuno si fermava per bere un sorso di Canelazo o di Rum, ma riprendeva subito i movimenti. Anche Mary, Tabatita, Kao e io ballavamo, ma l’unica che ci sapeva fare era Mary. Quando c’era una pausa, tutti bevevano, si cambiavano i musicisti, chi se ne andava e chi tornava. Poi la musica riprendeva e tutti a ballare di nuovo. Cosi’ per varie ore. Alcuni si sdraiavano sulla spiaggia, altri si facevano il bagno, chi mangiava e chi cantava… il tutto al ritmo del Tambor. Ad un certo punto Mary decise di portare a dormire la figlia dicendo che sarebbe tornata piu’ tardi. In realta’ si addormento’ anche lei in tenda e quella sera non la vidi piu’. Kao e io continuammo a ballare finche’ qualcuno comincio’ a gridare che era quasi mezzanotte e tutti cominciarono ad eccitarsi e naturalmente si attaccavano alle bottiglie. Alla luce del fuoco vidi Kao bere Canelazo con una ragazza. Mentre lui beveva lei gli carezzava i disegni che aveva sul petto. Poi un gruppo passo’ davanti a noi, qualcuno mi mise in mano una bottiglia di Canelazo, bevvi due sorsi e persi di vista Kao.
Dopo la mezzanotte si organizzarono Las Mañanitas, una specie di processione che va di casa in casa cantando gli auguri del nuovo anno. In origine Las Mañanitas sarebbe una tradizione religiosa ma a Puerto Maya era un rito pagano di cantare, mangiare e bere. Ad ogni casa ci si fermava a cantare, era apparsa anche un chitarra stonata ed un tamburello, la padrona di casa offriva da mangiare e da bere… e cosi’ di casa in casa.
In una di queste fermate mangiai una delle migliori zuppe di pesce della mia vita. La padrona di casa ci fece entrare e andare nel patio posteriore dove era stato preparato un fuoco su cui bolliva la zuppa.
Si continuo’ la processione. Passando fra una casa e l’altra intravidi Kao che veniva portato per mano dalla ragazza della spiaggia verso il retro di una casa e sparire nel buio. Cosi’ arrivammo al grande Mango e quella era la fine del paese ma qualcuno comincio’ a dire che bisognava andare a cantare las Mañanitas alla casa di Emma che viveva sulla collina e ci avviammo al buio inciampando su sassi e radici da bravi ubriachi fino ad in casupola dalla cui finestra usciva la luce di candele. “Perche’ non e’ venuta alla spiaggia?” chiesi ,”E’ vedova, il marito e’ stato ucciso a Caracas un anno fa e vive da sola. E’ ancora in lutto”.
“Povera vecchia”, pensai. La chitarra attacco’ al ritmo del tamburello e si comincio’ a cantare …”Que linda esta’ la mañana en que vengo a saludarte…Venimos todos con gusto y placer a felicitarte…” A quel punto la porta si apri’ e Emma, per niente vecchia, sorridendo si accomodo’ sull’uscio. Qualcuno le offri’ la bottiglia di Canelazo che prese e bevve “con mucho gusto”. Poi si sedette sullo scalino della porta con la bottiglia in mano e dette un altro sorso e comincio’ a cantare anche lei con una bella voce bassa e intonata. Era una bella donna, forse di trenta anni, forse quaranta anni, con i neri non si poteva veramente dire, spesso sono piu’ giovani o piu’ vecchi di quello che uno pensa.                                                                                                        EMMA
Las Mañanitas durarono una mezz’ora durante la quale Emma offri’ biscotti di granturco e banana’. Poco a poco la gente comincio’ a congedarsi, barcollando ognuno intraprese il sentiero per tornare in paese. Emma mi chiese se volevo provare il suo liquore al mango, fatto con i manghi del grande albero. Appena entrai si tolse la maglietta e rimase a petto nudo : “E’ un anno che nessuno mi tocca” disse. Emma aveva la pelle liscia e color cioccolato al latte, profumava di Mango e agua ardiente. I capelli ricci tagliati corti lasciavano allo scoperto il collo che carezzavo mentre giocavamo all’amore. Mi svegliai all’alba con il canto dei galli e dei pappagalli, una luce bianca entrava dalla finestra e Emma dormiva nuda accanto a me, era bella alla luce dell’alba cosi’ come era bella alla luce di candela. Per un attimo pensai a Mary, doveva essere furiosa con me… Mi alzai mi vestii in silenzio, diedi un’ultima occhiata a Emma addormentata e me ne andai. Il paese era deserto, sotto l’albero di mangos c’era un po’ di gente addormentata, bottiglie vuote un po’ ovunque. Improvvisamente pensai a Kao e a che stupido ero stato a lasciarlo solo sperando che non gli fosse successo niente. Silenziosamente mi avvicinai alla nostra tenda, una delle amache era occupata, buon segno voleva dire che Kao stava dormendo. Mi avvicinai e nell’amaca vidi che non era solo. La ragazza della spiaggia era con lui e dormiva tranquilla a seno nudo fra le braccia di Kao che, sveglio, mi guardava sorridendo con una espressione di ebete felicita’. Alle orecchie invece delle piume di pappagallo aveva dei fiori e sul petto, fra un serpente e l’altro, la ragazza della spiaggia aveva disegnato due cuori. Mi accomodai nell’altra amaca cercando di ricapitolare gli eventi ma mi addormentai subito. Mi sveglio’ Tabatita per offrirmi il caffe’. La madre aveva dormito tutta la notte e non si era accorta che io non c’ero e penso’ che avessi dormito in amaca, solamente mi chiese: “Ma che e’ questo odore di mango che hai sulla pelle?” Rimanemmo altri due giorni a Puerto Maya, non rividi Emma, anche se ne avrei avuto voglia ma Mary era una donna molto gelosa quindi era meglio stare buoni. L’avrei rivista in futuro durante altre visite. La ragazza di Kao era dolcissima e rimase con noi durante quei giorni e quando fu il momento di partire le uscirono le lagrimette dagli occhi. Anche Kao era triste e sarebbe voluto rimanere. Con l’amore aveva dimenticato di essere uno Yanomamo della selva amazzonica ed era pronto a diventare un pescatore del Mar dei Caraibi. La ragazza lo bacio’, lo strinse forte e poi lascio’ la presa.
I giorni seguenti a Caracas Kao non era piu’ interessato ad uscire con me, aveva capito che il mondo civilizzato non valeva la pena, pensava al mare, ai pescatori, alla liberta’ che in citta’ mancava. Pensava alla ragazza della spiaggia e non c’era niente che io potessi fare.
Finalmente, inaspettatamente come era arrivato, Jaques Lizot torno’ a Caracas e busso’ alla mia porta. Quando aprii mi trovai davanti due signori vestiti con giacca e cravatta e cappotto al braccio, era Gennaio e venivano da Parigi, mentre a Caracas era sempre estate. Lizot si era fatto la barba ed era leggermente ingrassato, la buona cucina francese, anche lo Yanomamo, di cui ho dimenticato il nome, era cambiato. Vestito completamente all’occidentale, completo grigio, scarpe di vernice nera brillanti, cravatta sgargiante, senza i pungiglioni conficcati sulla faccia ne’ piume alle orecchie. Se non fosse stato per la pettinatura a frangetta non lo avrei riconosciuto. Unico segno di, chiamiamola indianita’, erano strisce di caramelle di tutti i colori in carta trasparente di cui andava ghiottissimo e che portava intorno al collo tipo collane. Ogni tanto ne staccava una e se la mangiava. Ad un certo punto si sedette, incrocio’ le gambe, tiro’ fuori un pacchetto di sigarette e se ne accese una. Guardavo incredulo quella trasformazione . Se Kao era diventato un pescatore del Mar Dei Caraibi questo era diventato uno snob parigino con le caramelle al collo. Lizot vide la mia faccia e mi disse: “ Assorbono subito il peggio della nostra societa’, lui e’ diventato un dipendente dalle sigarette e caramelle.” In definitiva Kao era stato fortunato a non andare a Parigi. Poi lo Yanomamo parigino si tolse giacca e camicia, e vidi che sul petto, come Kao, aveva disegnato i serpenti. Dal borsello tiro’ fuori gli aghi e se li infilo’ di nuovo nella faccia con le piume di pappagallo alle orecchie. Si tolse le scarpe di vernice e scalzo se ne ando’ a fumare nell’amaca. Offri’ una sigaretta a Kao e cominciarono a chiacchierare e ridere. Ridevano a crepapelle, uno diceva qualcosa e ridevano, poi l’altro diceva un’altra cosa e giu’ a ridere.
“Di che ridono?” chiesi a Lizot, “Ridono di noi, dicono che siamo pazzi.”
Mary vive e lavora a Caracas , e’ una artista . Ha fondato e diretto una scuola d’arte per bambini.
Tabatita e’ sposata e vive a Londra con il marito ed un cane.
Jaques Lizot lascio’ la foresta Amazzonica alla fine degli anni 80 , vive in Francia ha compiuto 82 anni e non si occupa piu’ degli Yanomamo ma di antichi testi arabi.
Di Emma non so nulla

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