A volte mi chiama. Spesso. Vuole uscire dal cassetto dove l’ho relegata.
Bella com’è in un cassetto non ci dovrebbe stare. Lo sappiamo entrambe. Ma tant’è e io a volte l’ignoro. Ci provo. Almeno. E allora lei mi fa trovare un anello, una spilla di cui non mi ricordavo più. Astuta nello scegliere le esche, magistrale nel disporle.
Oggi è stata la volta degli orecchini. L’argento annerito fa da cornice a una semisfera di pietra dura viola. Ametista?
Sa che non posso resisterle. Percepisco la sua soddisfazione mentre mi avvito l’orecchino e raccolgo i capelli per vedere come mi sta. Uno sguardo furtivo allo specchio e lo tolgo subito. Troppo tardi, ha vinto lei.
Esce dal cassetto, lo sguardo di trionfo della regina che riprende possesso del trono.
Osserva benevola la gatta, tigrata come il suo Tigre, che mi mostra, cucciolo, mentre se lo stringe al viso. Uguale.
Mi lega con un sorriso e mi racconta la sua storia eterna pungendomi la pelle per farla entrare più in profondità. Non dimenticare, dice, non dimenticare di raccontare. A tuo figlio l’hai detto? Chiede. O mi incontrerà per caso senza riconoscermi? Come faccio a raccontargli di te senza che mi si spacchi il cuore? Senza che gli si spacchi il cuore? Non risponde. Prende forza dal cuore sanguinante di chi l’ascolta. E rivive. Decide di decorare la casa e mette le loro foto in una cornice nera. Dispone con cura le sue macchine fotografiche, un messale che sa che non leggerò.
Raddrizza la cornice, compiacendosi del lavoro fatto: Da qui posso vederti meglio.
Ora puoi raccontare. Aggiunge, dopo una pausa. E mi porge un’ultima foto.
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